mercoledì 23 dicembre 2009

infischiarsene

secondo me, certe volte bisogna infischiarsene delle buone maniere e approfittare del buon umore per levarsi dei sassolini dalle scarpe e tirarli nella tazza di caffè di chi se lo merita, perché se ne n'è infischiato di te troppo spesso.
secondo me, infischiarsene dovrebbe essere una materia di studio, ma a numero chiuso, perché c'è troppa gente che se ne approfitterebbe per portarsi i compiti da casa e rovinare la famiglia.
secondo me, quando uno se ne infischia con coscienza non fa male a nessuno, il problema è che di solito se ne infischia solo chi non ha coscienza e fa male a tutti.
secondo me, è meglio infischiarsene un tot di volte che assamaritanarsi tutta la vita e poi fare il botto col Kalashnikov in un ufficio postale una volta sola infischiandosene di chi c'è. di solito quella volta là basta a troppa gente che non c'entra un cazzo.
secondo me, me ne infischio anch'io, ma per fortuna faccio poco danno.
secondo me, ho detto una cazzata.

lunedì 21 dicembre 2009

Il tofu, questo misconosciuto.


Allora, sembra che la vena culinaria (absit iniuria verbis – de sti tempi è meglio specificare) abbia preso il sopravvento in questo blog, un po’ per pigrizia mentale, un po’ per assuefazione festiva, un po’ perché sentivo la necessità di spezzare una lancia a favore di un prezioso alimento macrobiotico che viene, secondo me ingiustamente, bistrattato dai più.
Lo spunto me l’ha fornito l’autorevole Stark che qui ne decantava soprattutto le qualità lassative, peraltro tutte da dimostrare. Mo’, non voglio dire che il tofu di per sé, al naturale, sia un coacervo di celestiali sensazioni organolettiche. No, è un concentrato di proteine vegetali, ha un basso valore calorico, è del tutto privo di colesterolo, è molto digeribile ed ha un potere rinfrescante e disperdente – prezioso per equilibrare gli eccessi di un’alimentazione carica di stampo continentale – ma fondamentalmente è una spugna. Nel senso buono, però, perché è in grado di assorbire il sapore degli aromi e dei condimenti con cui lo si tratta. Il tofu crudo non è una delizia per il palato – a meno che tu non sia un monaco zen in ritiro con voto del silenzio, ma, anche in quel caso è più un obbligo che una scelta - ed non è quello il modo consigliato per consumarlo. Anche nella zuppa di miso – probabilmente quella cui si riferiva Stark – ha il suo perché: si tratta di un ingrediente delicato che ha un fascino probabilmente meno riconosciuto della stracciatella, ma delle qualità sicuramente più accertabili. Comunque, de gustibus non est sputazzella, diciamo a Roma, quindi mi limiterò a condividere i modi in cui a me piace mangiarlo, con gusto e, credeteci o meno , desiderio.
Come dicevo, il tofu è una spugna, e questa sua qualità proteiforme gli consente di essere inserito persino in ricette nostrane con risultati sorprendentemente piacevoli. Una mia amica cuoca, lasciandolo per un’oretta sotto il sale affumicato quindi friggendolo a cubetti è riuscita a produrre una pregevole pseudo carbonara. Forse l’errore è quello di chiamarla carbonara, comunque l’esito finale è sesquipedalmente più povero di grassi animali dell’originale e a qualcuno può far comodo. Io ho provato a farlo alla pizzaiola, dopo un adeguata marinatura, e assicuro sull’appetibilità. Altrettanto per il trattamento “a trippa” che si usa per le uova, con il sughetto di pomodoro arricchito dall’aroma di mentha. Se devo essere sincero, però, il modo in cui lo preferisco è quello più semplice, saltato, preferibilmente nella wok, con le verdure. Mio figlio –5 anni e mezzo – ne va pazzo (signore mamme in ascolto, se ci siete, tenetene conto). E’ una ricetta di semplicissima esecuzione che può essere ulteriormente semplificata se si va davvero di corsa. L’avevo già scritta per un amico, la incollo qua sotto con un ultima precisazione: il tofu fara anche cagare, ma solo come risultato di un ottimo metabolismo.
Ah, se la Sidgi, non si offendesse di suggerirmi un bianco adeguato alla ricetta - ma anche un rosso o un rosato o una birra, ché il tofu è di bocca buona - sarebbe un bel regalo di natale.
Eccola qua:

TOFU ALL’IMPRONTA.

Si chiama così perché puoi farlo anche senza una adeguata preparazione. Come quando a scuola la pr'essoressa te seccava in latino il lunedì mattina dopo il week end di bagordi.

Ingredienti :
un panetto di tofu nature, o seta – quello bianco, semplice, liscio e sciapo. (300 g)
shoyu
vino, bianco o rosso, da cucina o anche un avanzo di quello buono.
acqua, della hannella.
aglio, alcuni spicchi, a piacere.
spezie, secondo i gusti. io preferisco: erba cipollina, santoreggia, curry – se sono in vasetto – alloro se fresco. o zenzero va bene sia fresco (1 mignolino) che in polvere (1 pizzicone)
olio, di semi (sesamo, è il top, girasole va bene uguale) o extra vergine. comunque poco.

La procedura standard prevede che per prima cosa affetti il tofu, appoggiandolo come un mattoncino sul tagliere e realizzando delle sottilette – dai 3 ai 7 mm – per poi adagiarle nella marinata che vai così a comporre: in un bicchiere grosso da osteria, ma anche quelli da acqua vanno bene, versi un dito, un ditemmezzo, quasi due di shoyu; aggiungi una quantità uguale di vino; riempi, ma non fino all’orlo, d’acqua. Se volessi fare le hose per benino, dovresti versare questo liquido nel blender del minipimer, aggiungere 1 o 2 spicchi di aglio sbucciato, le spezie a pizzichi, e un filofilofilo d’olio, per poi frullare tutto finché l’aglio non è spezzettato. Dopodiché distribuisci le fettine di tofu sul fondo di un contenitore e le copri con la marinata. Più sta, mejo è; ma mezz’ora può bastare. Quindi, tiri su il tofu, che poggi su un piattino - un tagliere, quello che vuoi – e metti a scaldare la wok o una padella antiaderente bella larga a fuoco vivace.
Appena è calda, versi un mestolino di marinata a sfriggere e ci fai saltare il tofu per il tempo sufficiente ad assorbire il liquido, solitamente meno di un minuto, poi fa spazio per la prossima saltata. Procedi così fino all’esaurimento delle fettine. Se hai fatto bene i calcoli, il liquido basta. Sennò ti tocca rifarlo, ma non sempre ce s’azzecca con le dosi.

Versione VELOCE....una volta che hai messo i 4 liquidi nel bicchiere (sho, vi, acq, ol) ci butti dentro gli spicchi d’aglio a pezzi, le spezie, e giri con una forchetta. Fai scaldare la padella bene, versi la metà del liquido, tutte le fettine – che saranno semi sommerse – e le fai andare sempre a fuoco alto fino all’assorbimento. Quindi le giri sull’altra faccetta e ripeti l’operazione con l’altra metà del liquido. Fatto.
Servire possibilmente caldo (è sottile, si fredda subito) con contorno di verdure a piacere, crude (insalata o insalatini) e/o cotte (abbinamenti molto buoni: carote scottate al tahini, funchi sciampigno’ trifolati, verza agliogliopeperoncino o sauerKraut saltati).
Facoltativa la presentazione con salse come moutarde à l’ancienne, tahin diluito con acqua tiepida, limone e miso, oppuramente un filo d’olio d’oliva accrudo. Peperoncino, se piace.

venerdì 18 dicembre 2009

se famo du' spaghi.


oggi nientedadire, ieri nientedadire, domani nientedadire. questo minimalismo, macché, nichilismo, macché, soncazzismo, mi strema. allora, pe' nun sapé né legge' né scrive', posto una ricetta, ché la ricettazione mi dicono che frutta, e qualche volta verdura. mo', ho detto spaghi, ma ho cambiato idea, facciamo pennette, che si gestiscono meglio, anche nel riciclo - attenzione all'ambiente eh! - e, visto che ci sono, mi spingo a consigliare una pennetta di farro, magari demeter o alce nero, che regge bene la cottura. metto su l'acqua, senza esagerare - vedi sopra - anche perché una pasta integrale biologica non va lavata e poi scolata, ma cotta in una giusta quantità d'acqua che, recuperata con una scodella, potrebbe persino essere riutilizzata per un brodo. mentre l'acqua si lascia scaldare dalle carezze del fornello, io accarezzo un radicchio di chioggia, quello rosso e tondo, sfogliandolo con cura in una centrifughina per nettoyarlo come si deve. mentre le foglie scolano per bene, capo - sì capo, a roma se dice capo - un paio di spicchi d'aglio, li taglio, e li metto nell'oglio (bear with me)...rewind, allora, verso qualche cucchiaio di olio (straverggine d'oliva, chettoodicaffà) in una capace insalatiera - anche se fai la pasta per te o per due, l'inzalatiera ha da esse capace, per smucinarti meglio, piccina mia - i suddetti spicchi d'aglio, tagliati a metà per il lungo. pesto nel mortaio 6 o 7 bacche di ginepro e un pizzico di semi di finocchio, aiutandomi con una presina di sale grosso, che contribuisce a macinare gli aromi che dovranno ingentilire e alleggerire la necessaria portanza dell'aglio. spolverizzo il macinato di sale e spezie nell'olio, smucino con la forchetta - la frusta mi sembra eccessiva, per ora - con la quale spezzerò, sempre dentro l'olio ma solo se non posso farne a meno, un peperoncino rosso, piccolo, secco e piccante. ora il radicchio dovrebbe essere asciutto, lo strizzo delicatamente con le mano - plurale romano derivante dalla 4^ declinazione - e prendendone un po' di foglie per volta, arrotolandole come un involtino sul tagliere, le affetto fine fine fine, diciamo in striscioline di mezzo centimetro max. verso le suddette striscioline porpora e bianche nella marinatina che attende nell'insalatiera di cui sopra, arravugliandole con la forchetta nell'intingolo. l'acqua bollirà, quindi non vede l'ora di accogliere le pennette, ma prima verso una bella presona di sale, grosso, per farla trasalire di desiderio, blub blub blub. ora, mentre l'acqua fa il suo dovere, io faccio il mio, gratto il parmigiano, apparecchio e mi verso un paio di dita di rapitalà ghiacciato nel bicchiere, per accogliere la unio mystica di pasta e condimento con la giusta dose di ebbrezza iniziatica. scolo la pasta, la sgocciolo bene con un paio di colpi di polso e la verso fumante nell'acquasant...er nell'insalatiera, per far sì che il calore sublimi gli aromi senza far appassire i serpentelli porpora di radicchio. e smucino. e smucino. e smucino finché non mi appare che l'unione si sia compiuta e sia pronta per essere celebrata - un altro po' di vino - e consumata.
é una cosa che si prepara in poco tempo, ma non vuol dire che vada fatta in fretta. n'est ce pas?

lunedì 14 dicembre 2009

Wovon mann eccetera eccetera.

Parafrasando Wittgenstein,
sarà pur vero che ci sono cose di cui non si dovrebbe parlare,
ma oggi mi farebbe davvero piacere dire una cosa che mi ha fatto piacere,
anche se non si dovrebbe dire che mi ha fatto piacere quella cosa che vorrei dire.
Però la dico: Mi ha fatto piacere.
E mo', identificatemi.

venerdì 11 dicembre 2009

Senza pelle.


Restiamo indifesi, quando consegniamo a qualcuno la nostra verità più nascosta. La verità vi renderà liberi, si legge nelle scritture, ma da una verità così vulnerabile è difficile sentirsi irresistibilmente, irrinunciabilmente attratti. D’altra parte, quante volte troviamo più comodo rimanere schiavi di una bugia, di una finzione, per anni, decenni, per una vita intera, piuttosto che camminare quei pochi* metri sui carboni ardenti che, quasi sempre, costituiscono il passaggio obbligato per accedere nello sconfinato spazio della verità? Aperto, scoperto, da vertigine. La pelle brucia, sotto lo sguardo di accoglie, raccoglie o intercetta la nostra esternazione. Le gambe, le mani, la voce, tremano. Il respiro si fa corto, concitato, spezzato da sbuffi e sospiri. Questi ed altri ameni sintomi ci accompagnano, quasi sempre a prescindere dalla reale reazione del ricevente della nostra verità, sia esso uno, centomila e persino nessuno. Non è infrequente che, dopo qualche attimo di penosissimo silenzio, arrivi un sorriso, un abbraccio, un applauso, invece del linciaggio che aspettiamo, quando scegliamo di liberare la nostra verità.
(prigionieri della menzogna, ci affanniamo a frapporci fra il mondo degli ipotetici interessati ed essa - come un bambino che si ingegna a nascondere il buco che si è fatto sui calzoni buoni giocando a pallone, tenendo sempre la gamba sana davanti a quella lacera - costruendo un paravento di bugie e sotterfugi, inconsistente da un lato ma irreparabilmente vincolante. Qualcosa a metà tra la ragnatela e il filo da pesca. Basta un soffio di vento per farla volare via, ma la sua stretta sega i polsi come il nylon. )
Mentre mi chiedo perché hanno preferito farci crescere nella paura invalidante del giudizio invece di farci crescere nella forza liberatoria della libertà, alzo la testa dal foglio e guardo fisso davanti a me. Sulla parete opposta dello studio è appoggiato il cavalletto di mia moglie. Ma quello che vedo io è solo una croce di legno.


*tutto è relativo, naturalmente; anzi, soggettivo.

giovedì 3 dicembre 2009

Il convitato d’aria.

Tu mi parli, io non ci sono. Tu mi spieghi mi argomenti mi illustri un progetto specificando i dettagli, io non ci sono. Tu mi mostri le ipotesi le diverse alternative gli interventi che mi coinvolgono, io magari annuisco ma non ci sono. Tu partecipi a riunioni esprimi i tuoi pareri le tue perplessità avanzi obiezioni e controproposte guardi dalla mia parte per cercare un sostegno, io al massimo faccio spallucce ma non ci sono. Tu ti incazzi sostieni le tue tesi difendi le tue idee litighi con tutti ti attiri i malumori ti fai il sangue amaro, io non ci sono. Tu torni a casa con una smorfia di disappunto disgusto dolore stampata indelebilmente sulla faccia, io per fortuna non ci sono. Tu ti allontani ti chiudi ti volti dall’altra parte, io no. Io non ci sono, ricordi? Tu pensi che sia comoda questa assenza. Certo, come è comodo qualsiasi anestetico. Lo scarti e lo mandi giù al massimo con un sorso d’acqua. Questa assenza è un peso che copre un dolore. Se io sono un convitato d’aria nella tua vita, il convitato di pietra nella mia, sono io. Quando non ci sono.

venerdì 27 novembre 2009

Combinazioni.



Se non fosse per il fatto che io sono nato a novembre, almeno così mi dicono e mi hanno programmato a credere, potrei essere figlio di Piero Manzoni. L'annata è quella.

Ah, e il 21 maggio è anche il mio onomastico.

venerdì 20 novembre 2009

Out of Season


No, non pensavo che sarebbe successo. No, almeno così presto, no. Eppure me l'avevano detto. Che, sì, poi, tutti te lo dicono che succede, prima o poi, ma non è necessariamente così. Non per tutti, almeno. Certo, lì per lì, ci son rimasto maluccio. Sai, uno è abituato a certi standard, quindi è quasi come se, davanti a certi cambiamenti, si sentisse mancare. E si attaccasse come un ragno disperato alla finestra che viene improvvisamente aperta, in faccia al vento, con il terrore di venir spazzato via nel vuoto. Perché? Perché deve succedere proprio a me? Fra le tante iatture che possono insidiare la vita di un uomo. Ma proprio la vita quotidiana, intendo. Ecco, ora, senza entrare nel drammatico - voglio dire, di incidenti ne sentiamo parlare anche troppo, troppo spesso, sui giornali (chi li legge), sui telegiornali, sui feed di notizie - però certi avvenimenti ti cambiano la percezione di te stesso. Per sempre. Ti inducono con malinconia a riavventurarti, con gli occhi sgranati nel vuoto, nei corridoi della memoria che ti riportano indietro, in quelle stanze del tempo in cui tu eri, semplicemente eri, un altro tu. Eppoi c'è pure chi ti dice che è tutta una cosa mentale, che il tempo non esiste, che è un sistema di misurazione che ha inventato l'uomo. "Scusa - ti dice l'amico filosofo - ma che, la Terra, nei minuti successivi al Big Bang, ammesso che sia avvenuto proprio così...- (apro una parentesi: l'amico filosofo è per natura scettico, di default proprio, come se lo scetticismo non fosse una scuola,una corrente, ma proprio una caratteristica intrinseca comune a tutti i filosofi, specialmente quelli che sono amici tuoi. Chiusa parentesi - ...ammesso che sia accaduto proprio così, dicevamo, pensi che la Terra - che è un essere vivente, neh, non è mica 'na palla che gira, una pizza de fango del Camerun - pensi che la Terra sapesse quanto misurava di equatore?
Eh?"
. Solitamente questa sagace argomentazione, contrariamente alla convinzione del suo formulatore, non ha la potenza dialettica né la portanza persuasiva di un sillogismo. Quindi tu rimani lì, con il tuo muso appeso, come una vestaglia troppo larga. E senti chiudersi la porta del negozio alle spalle. E senti il traffico della strada davanti a te. E ti ricordi persino dove hai parcheggiato la macchina. Ma non riesci a toglierti di testa quella frase. Quella domanda innocua, che ti ha staccato una spina dentro, e ti ha fatto scuotere la testa impercettibilmente mentre, voltando le spalle, bisbigliando una scusa inintelleggibile, ti sei allontanato dal negozio, lasciando l'oggetto del desiderio sul bancone.
"Le faccio un pacco regalo?"

mercoledì 18 novembre 2009

DICIASSETTEMILACINQUECENTOVENTI.

17.520 - più una dozzina, per tutti i 29 febbraio collezionati cammin facendo - di volte grazie, a chi mi sostiene e mi accompagna da una vita. Ma grazie anche a chi mi sopporta da meno tempo, soprattutto perché non era obbligato/a a farlo. Grazie. Di questi tempi, non do nulla per scontato.

Ovunque tu vada, vai da solo; perché la strada per l’illuminazione è
Molto stretta e piena di curve. E porta il tuo bicchiere da vino con te
Perché non ci sono garanzie.

Hafez

venerdì 13 novembre 2009

A volte basta una parola.





"Una sola parola può illuminare il volto" di Yunus Emre.

La traduzione dall'originale turco all'inglese è di Kabir Helminsky e Refik Algan.
La versione che ascoltate registrata in italiano è del latore della presente.
La musica è l'Ikinci Selam* eseguita dall'Aras Müzik Ensemble.

*Ikinci Selam: Secondo Saluto, in turco. Nella tradizionale cerimonia dei dervisci rotanti, il secondo saluto esprime il rapimento dell’uomo testimone dello splendore della creazione, di fronte alla grandezza e onnipotenza di Dio.

martedì 10 novembre 2009

La patata scaricata

A volte penso che l'istinto di liberarsi subito della patata bollente, senza un attimo di considerazione, sia una delle conseguenze più deleterie indotte dall'uso della posta elettronica come strumento primario di comunicazione all'interno dei posti di lavoro.
Quando basterebbe darsi una voce, se non addirittura mettersi seduti uno di fronte all'altro.
Oppure telefonarsi, anche se la distanza - ricordo che il prefisso "tele", mutuato dal greco, quello significa - fra i due interlocutori è di poche decine di metri e qualche passo basterebbe.
Oltretutto fa anche bene alla salute. Parlarsi di persona, non solo muoversi.
Ma tant'è, mo' c'è la mail, l'intranet e cazzi vari. Così, chi può, quando gli/le scappa, sbologna la patata sulla rete interna. D'emblée.
Succede poi che si scateni una reazione di botte e risposte che, con l'aggiunta del campanellino di ricevuta, rallegra un open space con echi garruli da villaggio di montagna. Ma, molto più spesso che no, si tratta di un feroce scambio di scaricatio barilorum ipersintetico. Nel senso che, in poche sillabe, la patata comincia a rimbalzare da una scrivania all'altra, anzi da un desktop all'altro. Con conseguente appesantimento della digestione - ma anche di gestione - della patata suddetta.
Oppure, può verificarsi il caso che l'urgenza di liberarsi della patata ASAP (altro termine ricorrente in questi scambi, un acronimo quintessenziale della febbre scaricarella, As Soon As Possible, mica cazzi), porti a dimenticarsene dei pezzi, magari fondamentali, salvo poi redimersi con una sequela di episodi a scadenza quartodorale che traformano la patata in un grappolo. Proprio come una bomba. Per dire, ho scoperto che una mia collega si è guadagnata, a sua insaputa, il simpatico nickname di "Annulla e sostituisce" (la precedente), per via della formuletta che suole incollare in "oggetto", in tutte le puntate successive della patata che, inevitabilmente, finisce per sfragnersi (ndt. rom. infrangersi) con esiti decisamente sporchevoli e poco appetitosi.
Ora, colgo l'occasione per ricordare che il WFP aveva dichiarato il 2008 come Anno Internazionale della Patata.
E' possibile che certe lodevoli iniziative abbiano sempre così corto respiro qui da noi?

giovedì 5 novembre 2009

Ma non potevi farti una Kawasaki ZZR 1400*?




Ci vuole un mucchio d’incoscienza. O, forse, potremmo senza mezzi termini chiamarla stupidità. Perché va bene farsi travolgere dalla passione, dall’impulso irrefrenabile di sentirsi vivi e vibrare nel calor bianco della lussuria. Va bene, certo, ignorare i pregiudizi della morale comune, ché la morale dovrebbe essere un parametro utile per contrastare o impedire i comportamenti contro la vita, non un subdolo strumento di controllo di quelle pulsioni individuali che non si inquadrano facilmente nello schema collettivo. Va bene anche che, soprattutto nella mezza età, si possa cader vittime della tentazione di evadere da una routine di responsabilità, peraltro autoimposte, e tuffarsi nell’energizzante vortice della trasgressione. Va bene tutto, ma se hai un cognome che, non solo si presta a facili rime da caserma, sed etiam rimbomba di significati lubrichi in molti vernacoli e soprattutto in quello della regione dove vivi, di cui ti accade, non incidentalmente, di essere il governatore, allora, scusa, sei molto più che incosciente. Sei sicuro di non chiamarti Buttiglione?

lunedì 2 novembre 2009

Sbrolloguio. Postlegomeni a catena ramificata sulla genesi del rollo dei blogghi.


Ogni tanto, giusto per divertirmi, vado sul blog di Stark e clicco e riclicco sull'intestazione per leggere i sottotitoli che cambiano. Che vuoi, mi diverto con poco. E poi ci sono affezionato a quel blog, perché da lì ho cominciato a frequentarne un altro e poi un altro ancora ed ho conosciuto così – in senso lato – tante persone interessanti e simpatiche e di cuore, che per me è nonplusultra. Qualcuna l’ho persino incontrata, vis a vis. Ci ho addirittura mangiato una pizza insieme. Oggi, anche senza write or die ho deciso di scrivere a ruota libera, tanto ho disabilitato l’impostazione di invio per mail delle mie elucubrazioni ad una decina di malcapitati, quindi non devo troppo preoccuparmi del tedio procurato: se volete leggere uno che non ha nientedadire è una vostra scelta. Dicevo del blog di Stark che poi avevo scoperto per caso, semplicemente digitando "perché no?" nella finestrella di goooooogle, mentre facevo una ricerca per lavoro e, se non ricordo male, m'imbattei in uno dei più fulminanti post "Barigazzi", quello dei blugins, per chi lo conosce. Forse non era proprio quello, ma fa niente, quello che m'interessa raccontare o riraccontarmi - oh, che questa cosa qui va considerata, cioé che quando hai voglia di raccontare qualcosa a qualcuno, probabilmente prima di tutto te la vuoi riraccontare a te medesimo, perchè ti fa simpatia o affetto o altri sentimenti - era il percorso che mi ha portato ad avere nel blogroll, come dicono quelli bravi, una serie di persone o meglio il link al loro blog. Quindi, da Perché no sono arrivato a Eiochemipensavo e a Spinoza. Frequentando questi siti, ho avuto la fortuna di interagire con un professore romantico, un Consulente di Cazzate Seriali o Consulente Seriale di Cazzate appassionato di acronimi - meglio non rischiare di offenderlo perché è grosso e permaloso, nonostante l'attitudine al cazzeggio e il cuore tenero - e una Fata a mano armata. Ecco, direi che mi posso fermare, perché questo noioso post sta diventando lungo, e anche perché alla fine è da lì in poi che è cominciato l'effetto cascata, con sprizzi di Aperol e amenità varie, che è arrivato a riempire la colonnina destra di questa paginacasa.
Mi fa piacere ricordare che la mia iniziatrice, o meglio, colei che mi ha dato il primo input - e per questo sarà inputata- per partorire questo blog è stata un'altra fata tutta nera, mapperò tanto una brava personcina che, quindi, tanto per riprendere una terminologia filosoficheggiante, ha avuto un ruolo maieutico nei miei confronti. Come dire, è stata come una Socrata per me.
Detto questo, per non aver nientedadire, ho detto già troppo.

sabato 31 ottobre 2009

L'ombra


Perché l'ombra, a quanto sembra, non può fare a meno di esistere, nelle nostre vite, anche se ingombra con la sua coltre spessa e spesso rende tutto più denso e imperscrutabile. Altre volte, invece, è come l'ambra, quasi trasparente ma imprigionante insetti o altri corpuscoli che, svolazzando, vi rimangano impigliati. Succede spesso ai desideri, soprattutto quelli insoddisfatti, o meglio, quelli che non abbiamo il coraggio di esprimere a noi stessi, lascia perdere agli altri - altro che membra intorpidite o lingua immota: quando l'ombra ti afferra un desiderio poi lo smembra e l'inghiotte nel suo ventre sinuoso ma inquietante. E' come un labirinto senza uscite, l'ombra, pieno di svolte e cunicoli che, non sembra, sono vicoli ciechi e ti riportano al punto di partenza, senza farti accorgere del tempo che è passato. Una volta nell'ombra ci ho vissuto, non saprei certo dire quanto, ma mi sembra, di ricordare come ci si senta, a rasentare quei muri a testa bassa, cercando sul terreno qualche traccia, mentre le membra, fiacche, si trascinano sempre più a rimorchio, come una zavorra necessaria ma che ingombra. Ha un suo peso specifico, ogni ombra, che non è sempre uguale ad un altro. E sotto il peso del sacco dell'ombra, ci si trascina mentre un senso di annullamento lieve ti adombra quotidianamente e inesorabilmente ogni momento. Ora non vorrei che l'ombra si insinuasse, surrettiziamente, nella vita che faccio, impolverandola pian piano, opacizzandola quel tanto che, non sembra, ma ti fa perdere un contatto, poi due, poi una fetta più grossa e ricca di te stesso. Perché anche se sembra che ti perdi agli altri, in realtà, l'ombra smembra la tua presenza e la coscienza, che casomai avevi accumulato, si dissipa come una sola goccia di tintura in una vasca d'acqua. Ti accorgi un attimo di avercela versata e lei è già sciolta, evanescendo come, aspetta, come un'ombra di una nuvola quando il vento la sposta e la dissolve e l'allontana. Eppure l'ombra, mi ricordo, da bambino, era associata solo a bei pensieri, di fresco, di sollievo, di riposo. E' faticoso star sempre sotto il sole, ogni tanto ci vuole un bello stacco, ma nessun'ombra è mai quello che sembra, e allora, anche se non è, a volte, lineare, o altre volte è forse ineducato, magari è persino da imbranato, conviene guardar bene che nell'ombra, nella quale stiamo per gettarci, per non sentire le vesciche sulle spalle, non ci sia qualche pozzanghera melmosa. Perché da quell'ombra è ancora più difficile uscir sani. Tanto meno svegli e volti alla luce. Il sacco sulle spalle è sempre pieno e sembra quasi un macigno, tanto ingombra. Tu senti solo il peso e solo lui si vede e ti comanda. E' un dittatore oscuro, alle tue spalle, ma ti avvolge tutto intorno e ti accompagna, proiettandoti davanti la sua ombra. Allora è meglio che tu sappia o meglio, intenda, con tutto il tuo essere, che allora intorno a te nulla, ma veramente nulla, sarà davvero quello che a te sembra.


p.s. alla fine ci sono cascato anch'io in questa trappola del Dr Wicked, anche se non ho avuto il coraggio (?) o la stamina di impostarla in mode Kamikaze. Ringrazio Alessandro Bonino, per il suo ineffabile spirito divulgativo, e la Sid, per la sua ispirevole intraprendenza (volevo copiarti anche i credits, ma mi sembrava brutto;). Ah, naturalmente ringrazio Robert Bly. Il motivo mi pare chiaro, nonostante l'ombra.

venerdì 23 ottobre 2009

Momenti topici


Sei il pasticcere più bravo del mondo, ogni giorno aduso a maneggiare con destrezza fragili uova, esaltando l'agilità del tuo polso con la frusta, per costruire ancor più fragili, spumose nuvole di albume, liberando la scioltezza delle tue dita fredde per realizzare le più ardite sculture di pasta frolla. Oppure sei un falegname rifinito, capace di valutare ad occhio nudo, con lo scarto di un micron, il fuorisquadro di una cornice con cui rivestirai una nicchia scalena, di tagliare, con la precisione di una macchina, i singoli pezzi, unghiati a perfezione, senza sprecare che pochi millimetri di legno. O magari sei un chirurgo estetico.
E allora so' cazzi tua. E de chi te capita sotto.
Perché, ricordati, er momento der cojone vie' pe' tutti.

giovedì 15 ottobre 2009

Un biglietto da visita

Severina Bacchetta, domatrice a domicilio
Ma non mi porti il cane, al massimo, suo figlio
No, non lavoro al circo, non mi piace l’odore
Quelle bestiacce puzzano, poi c’è troppo clamore
Di esibirmi in pubblico non mi interessa niente
Somministro ai singoli, solo privatamente
Alcuni miei clienti son dei veri animali
Cui piace assai la frusta; son tipi originali
O almeno così credono. Che grande presunzione!
Non immagina quanti hanno questa passione...
Chiedo sottomissione, dispenso disciplina
E loro mi obbediscono, questa è la medicina
Che li fa stare bene, dopo, diciamo, qualche giorno
Quando le mie frustate, i miei insulti e il mio scherno
Han smesso di bruciare, almeno in superficie
Quanto bruci nell’animo, nessuno te lo dice
In qualche senso cercano, io credo, di evocare
Gli spettri del passato che hanno imparato a amare
Seguendo modi oscuri, contorti, distruttivi
Che hanno sviluppato, forse, per restar vivi
Quando non ne vedevan altri più equilibrati
In fondo lo capisco, nessuno li ha aiutati.
Che il dolore li ecciti e tenda a soddisfarli
È davvero accessorio, creda, basta guardarli
Per sentire che il culmine delle loro reazioni
Non è legato al sesso: è fame di attenzioni
Quella che li divora da chissà quanti anni
E nelle loro vite ha fatto tanti danni
Imbrigliandoli in storie, quanto meno, malsane
Queste persone, veda, seguono regole strane
Improntate al dominio ed alla negazione
Disconoscendo in toto la semplice espressione
Dei propri sentimenti o almeno dei bisogni
squisitamente fragili, che vivono di sogni
Non hanno alcuna idea di come sia possibile
Un rapporto normale, gli sembra irraggiungibile
Son più che rassegnati oramai a soffrire
Anzi, sono assuefatti, gli piace da morire
Sentire umiliazione, esser picchiati e offesi
Qualsiasi onta va bene, a patto di esser presi
Un po’ in considerazione: sono dei mendicanti
Anche se non lo dicono, fuori, nei rutilanti
Ruoli che hanno scelto nel mondo
Lì dispensano astio, superbia, odio profondo
Eppure non riesco, in fondo, a disprezzarli
Non li amo nemmeno, sa. Cerco di aiutarli.

venerdì 9 ottobre 2009

L'archetipo di tutti i parchi a tema.




Giardino dell'Eden: il Parco di Dio.

mercoledì 7 ottobre 2009

La meteoropatia spiegata ai bambini


"Datosi che oggi c’è ‘r sole, nun me rode’r culo."

martedì 6 ottobre 2009

Diciotto anni

Diciotto anni. Diciotto anni fà, ero ancora nella mia prima vita, avevo appena (appena?) trent’anni. Diciotto anni fà, falliva il golpe contro Gorbachev, veniva sciolta l’Unione Sovietica, Jeffrey Dahmer il cannibale di Milwaukee era arrestato, Freddy Mercury moriva di AIDS. Invece, quando avevo diciotto anni io, cadeva Pol Pot in Cambogia, tornava Khomeini in Iran, Syd Vicious moriva a 21 anni di overdose, la Thatcher era la prima donna eletta primo ministro, Nilde Iotti la prima ad essere eletta presidente della camera, Saddam Hussein diventava presidente della repubblica Irachena, Françoise Sagan, presidente della giuria del festival di Cannes, assegnava la Palma d’Oro ex aequo ad Apocalypse Now e ad Il Tamburo di Latta, nevicava per mezz’ora nel Sahara...
Diciotto anni prima che io nascessi, invece, successe questa cosa qui, che è il motivo che mi ha spinto a scrivere questo post, in the first place.
Per fare una semplice, banale constatazione: quanto quello che accade nel mondo prima che tu venga al mondo contribuisca a farti diventare quello che sei, anche se non ti tocca direttamente.
Penso con affetto e solidarietà ai ragazzi che hanno diciotto anni oggi, circondati da quello che si vede in TV e si legge su Internet o – addirittura! - sui giornali.
Hanno davvero bisogno di una mano, ‘ste ragazze e ‘sti ragazzi, e bisogna trovare il modo per dargliela. Finché ce ne rimane una libera. Quello che stanno passando ora è reponsabilità - in parti diverse, certo - di tutti noi che siamo passati prima da queste parti e abbiamo lasciato il cesso sporco.

Sì, lo so, anche un po’ di ottimismo non guasterebbe.Ma la buona volontà viene prima.

venerdì 25 settembre 2009

la dignità

Invecchiare a un semaforo,
pulendo vetri,
vendendo fazzoletti deodoranti accendini,
è qualche cosa che faremmo ancora,
per dare da mangiare ai nostri cari?


Qualcuno di noi la chiamerà umiltà, altri rassegnazione, altri ancora ineluttabile resa all'iniquità sociale contemporanea. Tutti avremmo in parte ragione.
Io la chiamo innanzitutto
dignità assoluta di essere umani.
E mi inchino.

mercoledì 23 settembre 2009

muri

hai mai provato a stare vicino a un muro ma non un muro semplice un muro di ghiaccio un muro di spalle e non solo a starci seduto vicino magari otto nove dieci ore al giorno e avere pure la necessità di parlarci perché per motivi che hai dimenticato o che non vuoi ricordare a quel muro potevi appoggiarti e quel muro sostenevi quando non era un muro e poi pensi all'autocommiserazione e la condanni pensi alla responsabilità e all'impegno e riconosci i tuoi limiti e le tue recidive abitudini poi pensi alla frustrazione ma poi pensi anche che l'umanità è un'altra cosa e che mandarsi a fare in culo talvolta è meglio e continuare ciascuno per la sua strada è probabilmente più salutare e stimolante e la cosa che trovi più dolorosa è che non ti sembra possibile nemmeno prendere l'iniziativa di parlare e ti ritrovi a scrivere una sequela di pensieri su uno schermo e a inviarli in uno spazio di cui non conosci gli esatti contorni e confini dove si affacciano occhi menti cuori talvolta che non hai avuto l'occasione di vedere e sentire e conoscere di persona persone che non hanno spesso nulla a che spartire con te se non la voglia in quel momento di perdere tempo a curiosare in uno spazio indefinito perchè magari quello definito che hanno intorno in quel momento è circondato da muri ma non muri semplici muri di ghiaccio muri di spalle
muri che per un motivo o per un altro per paura o per disgusto per pigrizia o per orgoglio nessuno si prende la briga di tirare giù


ps. se vuoi aggiungere della punteggiatura fai pure ma ricorda che anche un punto e una virgola possono essere dei muri ma non muri semplici muri di ghiaccio muri di spalle e in quel caso lo sai per certo chi è stato
a tirarlo su
quel muro

venerdì 18 settembre 2009

Un post reazionario


Che diritto avrebbe una specie di fricchettone come me che, alla soglia dei 50 anni, ancora porta i pochi capelli rimasti legati a coda di cavallo, indossa t-shirt con le scritte, sfoggia anelli e monili d’argento d’ispirazione etnica, che diritto avrebbe, ribadisco, di criticare l’abbigliamento, o meglio alcuni particolari vezzi dell’abbigliamento di alcuni gggiovani d’oggi? La risposta potrebbe essere semplice: nessuno, è soltanto un sintomo in più dell’invecchiamento. E, come si dice a Roma, del rifardimento* ad esso collegato. Tant’è! Ma siccome mi piace, quando posso, perseguire la sincerità, mi espongo ed espongo questo stralcio di riflessione a voce alta, estirpato da un superficiale scambio di battute, fatte fra colleghi nello spazio di una sigaretta.
Vi è mai capitato di vedere per strada qualche ragazzo camminare a gambe larghe, come se avesse mal calcolato la qualità del meteorismo, con la conseguenza di aerografarsi biologicamente la preziosa mutanda griffata? Penso di sì, è un’apparizione abbastanza comune che – per fortuna (della mamma del ragazzo, almeno) – ha però un altro motivo: la scelta stilistica di indossare pantaloni di almeno due taglie più grandi - oversize, se dice oversize, cazzo! -, acciocché il punto vita degli stessi circumnavighi lascamente la zona pubica o, addirittura, quella crurale. Così, se non vuole inciampare ad ogni piè sospinto o, alternativamente, esporsi a sanzioni, sfottò, se non addirittura tentativi di approfittare delle sue incustodite terga, il suddetto ragazzo è costretto ad arrancare con le cianche a compasso, per contrastare la legge di gravità che attira i suoi designer jeans verso le caviglie. Ora, questo è un eccesso del consolidato ritorno in voga della vita bassa. C’è chi si limita a mostrare l’orlo delle mutande senza mettere a rischio la sua incolumità. Ma ho osservato un’altra tendenza che, talvolta, si associa a questa: le scarpe da ginnastiaca, pardon, le sneakers portate parzialmente o completamente slacciate. Questa la capisco già di più; considerando l’affezione al capo griffato e al numero di ore per cui viene indossato, si pernette ad un maggior quantitativo d’aria di rinfrescare l’interno della scarpa, prevenendo reazioni chimiche deleterie su scala globale al momento in cui detta sneaker viene finalmente, comodamente estratta.
Be’, la quantità di rifarditismo da me raggiunto in questo post mi sta facendo sentire male, sono pieno di vergogna e di rimorsi per aver rinnegato un principio per cui, nella mia lontana adolescenza, ebbi a questionare con mio padre.
Per ciò verrò al sodo e condividerò con voi il pensiero che mi è balzato in testa quando ho confrontato mentalmente quel tipo di abbigliamento con quello che andava in voga a metà degli anni Settanta:
si vede che questa generazione non ha bisogno di scappare.
Da una carica, da un pestaggio, o semplicemente dalle ire di qualche vicino cui si era abbozzata la macchina con una pallonata.
Dovrei, quindi, pensare che la qualità di vita di questi ragazzi è migliorata.
Come mai mi riesce tanto difficile?

* Rifardito.
Una persona che si pente di qualcosa o cambia idea, che si tira indietro. Quasi sinonimo di infame

martedì 15 settembre 2009

Fate il vostro gioco

Quel simpaticone di Oscar Wilde, che aveva sempre una buona parola per tutti e un aforisma pronto per ogni occasione, sembra abbia detto che “Esperienza è il nome che l’uomo dà ai propri errori.”. Arsène Wenger, manager della squadra inglese dell’Arsenal, a modo suo un guru dei nostri tempi, ha avuto modo di affermare recentemente, riferendosi naturalmente al limitato e limitante universo del calcio, che “…l’esperienza è il fattore più sopravvalutato.”. Il padre di tutti medici occidentali, Ippocrate di Coo, arriva ad affermare che l’esperienza è addirittura ingannevole.
On the other hand, troviamo un certo Aristotele che promuove l’esperienza a metodo principale della conoscenza, sostenendo che “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendo”. Gli fa eco un altro pezzetto da novanta della ricerca e dell’arte, tal Leonardo di ser Piero, più noto come da Vinci, o Leonardo* tout court , che spezza una lancia definitiva a favore dell’esperienza, dichiarandola madre della sapienza. L’imparzialità mi impone di portare un altro sostenitore a favore dell’esperienza e, per fare 3 a 3, scelgo un’altra bella mente contemporanea, il versatile Paul Valery, che ci riconsola tutti con la gnomica “Una cattiva esperienza vale più di un buon errore.”
Ora, grazie a Google e a Wikipedia – cui Paul the Wine Guy invita giustamente ad associarsi per sostenerne il preziosissimo lavoro – il batti e ribatti potrebbe andare avanti per molte oziose righe. Io che, come suole**, ho nientedadire, farò un’eccezione e snocciolerò la mia banalità al riguardo.
Vista l’ineluttabilità, nella vita, di fare esperienze che possano, con comune sentire, essere definite brutte o cattive, be’, queste dovrebbero essere sempre considerate un tesoro da condividere per favorire la crescita e l’evoluzione e mai un’arma da brandire per chiudere un discorso o castrare un naturale istinto di esplorazione e scoperta.
Io me so’ capito.




* da non confondere con l'attuale "tennico" del milan.
** ma anche come suola, al singolare,anzi sòla.

giovedì 10 settembre 2009

Breve


Tipo che la presentazione, anticipata di un giorno - come al solito - incombe, si montano layout freneticamente, contro il tempo, bestemmiando per la colla che non incolla, i fogli che si appiccicano storti, la plastificatrice che ha finito il rullo, e arriva lui, di cui non farò il nome, e fresco fresco, con la nonchalance di un posteggiatore abusivo, incalza, andiamo andiamo stiamo andando forza andiamo, tutto questo da metà corridoio avvicinandosi verso il teatro di guerra, dove lo spazio vitale si restringe e se non si respira napalm è solo perché non serve ad attaccare i layout, quando alfine egli arriva in trincea e cerca di intrufolarsi oltre il muro di spalle operose, chine sul cutting mat, io improvviso...

porgendogli con determinazione i due rotolini di nastro adesivo con cui stavo giocherellando, gli dico:

"Tiè, va'!"

"Cosa devo farci?" si perplime egli, curioso

"Va' a scocciare da un'altra parte."


Per dire, gioco di squadra è anche questo, sparare la cazzata giusta al momento giusto.

lunedì 7 settembre 2009

Ottuso


Sicuramente suona meno volgare di attufato, ma certamente non sembra un complimento.
Non è un'offesa, però, letteralmente. E’ una qualità particolare, che può accompagnarsi a vantaggi e svantaggi a seconda dei punti di vista, degli stati d'animo o più semplicemente dalle situazioni contingenti che si incrociano.
Avere la capa ottusa, dal raffreddore che ho io per esempio, quando hai bisogno di escludere il chiacchiericcio tipico dell'open space dalla tua ricezione, per poterti concentrare sul lavoro o su un post inconcludente, non è un gran male, anzi.
E’ al momento di chiedere ferie o aumenti di stipendio che la capa ottusa si trasforma in nemesi.
Ma non stavo parlando della mia, eh. Sta ancora in ferie.

mercoledì 2 settembre 2009

Momenti mistici


Sono dei momenti inattesi, che ti accarezzano alla sprovvista, con meraviglia. Come svegliarsi all’alba e sentirsi invitati ad uscire fuori, nella natura, con la natura. E trovare subito, come guidato dall’istinto, una stradina bianca, lontana dalle case, circondata solo dalla macchia profumata della Sardegna e da una cortina di canne che protegge un rio da sguardi predatori. I passi, ancorché stentati e affannati, senza pratica, riescono persino ad avere un ritmo armonioso, sulla terra battuta. Tanto che una volpe, piccola, uscita dalla macchia, solleva curiosa la testa verso di te, che aggiungi una nuova vibrazione al suo paesaggio sensoriale. E non scappa subito, no, resta un attimo a guardarti prima di infilarsi di nuovo tra i cespugli. Sono momenti come questi, sono queste epifanie, a farti alzare la testa. E lì, allora, nel cielo ancora grigio pallido, vedi la luna piena affacciata sul mare, calmo, proprio davanti a te. La meraviglia, in questi momenti, raggiunge livelli da smarrimento, da incredulità. Pensi che alle tue spalle sta per sorgere il sole, mentre davanti a te c’è ancora la luna piena. Ti gira quasi la testa. Ti senti una formica che sta correndo su una riproduzione gigantesca dell’icona principe del Tao, uno Yin Yang in 3D, che si compone dinanzi a te mentre lo attraversi. Anche se sei un inguaribile agnostico, un ateo convinto o semplicemente non te n’è mai fregato un cazzo di questioni spirituali, ti senti invaso da uno strano sentimento. E l’oggettiva potenza del momento, la potenza della natura al risveglio, prima che i traffici umani - a parte il tuo – la contaminino, ti impedisce di scacciarlo via ‘sto sentimento, questa serpeggiante tentazione mistica. Ed è così che vedi tra la macchia un varco. Intuisci un sentiero. E là, in cima alla collina, intravedi un passo. A questo punto sei fatto e, incurante dei rovi che ti carezzano braccia e gambe con un tocco alquanto acuminato, ti incammini verso la vetta, ubriaco ormai di trance mistica. Più ti addentri nella natura, più dimentichi i tuoi dubbi sulla reale esistenza di Dio. E’ solo arrivando alla vetta, però, che ne hai la certezza. Quando trovi un cancello di ferro con un cartello che dice “proprietà privata”a chiudere l’unica possibilità di valicare la collina, è allora che affermi finalmente a pieni polmoni - ancora affannati per la salita – la tua certezza. Sì, Dio esiste. Altrimenti, come esisterebbe il prosciutto di Parma?

giovedì 27 agosto 2009

Prove tecniche di silenzio

...avete sentito niente? bene, allora funziona.

anche se, poi, non basta stare zitti per stare in silenzio. non basta neanche aver niente di dire. ché, una pletora di gente che ha niente da dire - peggio di me - si guarda bene dallo star in silenzio.
io ho provato, questi giorni, quando ero da solo e talvolta anche in compagnia, a stare in silenzio. ma non ci sono riuscito molto bene.
anche quando non dicevo niente, in qualche modo rispondevo, commentavo, tagliavo e cucivo.
quanti secondi sarò riuscito a rimanere in silenzio, ma proprio in silenzio, attraversato dal vento del mondo esterno, senza fornirgli neanche un brandello di vela, limitando l'interazione al respiro?
anche ora, tò, sono riuscito a non lasciare questo spazio bianco.
oppure, non sono riuscito a lasciare questo spazio bianco.
è lo stesso, dite? non proprio.
ma, se - qualcuno potrebbe dirmi - il succo della vita, l'esperienza che ci rende umani è tutto nel relazionarsi, conoscere le altre sfaccettature in cui l'esistenza si esprime, perché tutta questa filippica sul silenzio.
se lo sapessi, non ve lo direi.
tanto vale che me ne sto zitto.
(ah, naturalmente avrei dovuto scrivere "che me ne stia zitto", ma non volevo prendermi troppo sul serio.

venerdì 31 luglio 2009

Arrivederci.


Nienteadire, con grande coerenza con la sua missione aziendale, ha latitato parecchio in questi giorni. Poco male, avranno pensato i miei dieci generosi sostenitori. Tanto meglio, avranno pensato i dieci sfortunati che ho incluso nella mia mailing list. Io, personalmente, mi sono mancato. Sono un sentimentale, lo avrete capito. Oggi mi dispiacerà persino lasciare le saccocce di intonaco e le scatole di mattonelle con cui ho condiviso questi ultimi giorni e anche diverse notti. Una compagnia sileziosa, ma che si è fatta sentire, soprattutto nelle vie respiratorie. Ora cercherò di mettere una distanza sufficiente fra me e il cantiere che è stata (ed è ancora, in parte) la mia casa, tale da impedirmi di fare anche una scappatella furtiva, così, tanto per repirare la polvere che mi lastrica ancora la gola. Tanto so che la ritroverò qui ad aspettarmi, fedele, al ritorno da questo breve esilio. Cercherò di non pensarci troppo, anche se la sabbia me la riporterà facilmente alla memoria. Bon, auguro a chiunque capiti di leggere questo posticciuolo una buona vacanza, piena anche di noia, di dolcefarnienté - come dicono simpaticamente i francesi, alludendo al nostro spirito nazionale - di spensieratezza. Ed auguro a me stesso di aver qualcosa di più interessante da dire, al mio ritorno. Ecco, ci manca solo la menzione alla morìa delle vacche, e la mia lettera da fratelli Caponi è quasi perfetta.Punto, punto e virgola e punto esclamativo.

PS. fra CK one e KC 1 - che vedete rappresentato nella fotina - c'è una bella differenza. Ma non vi consiglio di provarla sulla pelle.

giovedì 23 luglio 2009

TEMA. L’attenzione, questa sconosciuta.


Svolgimento.
Alcuni recenti accadimenti della mia vita – cancello di default gli aggettivi, perché sarebbero banali e ridondanti, ognuno cià i problemi suoi - mi hanno portato a riflettere sull’attenzione. Epperò (questo ‘a pr’essoressa me lo segna rosso) siccome che ciò da fa’ (questo mi costa tre segnacci blu e tre voti in meno), ho pensato di copiare il tema. Speriamo che non se ne accorghi…

Vi racconto un episodio di ieri. Sono praticamente scappata dall'ufficio perché qui si rischia sempre di rimanere incastrati fino a tarda sera.

Arrivata al "timbro", mi sono accorta di non avere il badge aziendale. Non potevo tornare indietro a controllare in ufficio perché rischiavo di perdere la navetta.

Finalmente a bordo del mezzo sociale, ho praticamente rovesciato tutto il contenuto della borsa sul sedile, ma non ho trovato il badge.

A quel punto, mi sono scollegata, mi sono messa a leggere il romanzo che avevo con me ("Una buona scuola" di Richard Yates, l'autore di "Revolutionary Road").

Scesa dal pullman, sono andata alla metro. Appena entrata in metro, rovistando per cercare la tessera metrebus, che non trovavo, mi sono accorta di non avere più il portafoglio che avevo lasciato sul pullman quando avevo rovesciato il contenuto della borsa per cercare il badge aziendale.

A questo punto, è iniziato il mio inseguimento del mezzo sociale. Visto che fa diverse fermate, speravo di beccarlo da qualche parte.

Alla fine, tramite un collega in ufficio, sono riuscita a rintracciare il conducente telefonicamente che, per fortuna, aveva ritrovato il portafoglio e me l'ha riportato a San Giovanni, ultima tappa della mia rincorsa.

Il tesserino aziendale però, a tutt'oggi, risulta sparito.

Questa è, generalmente, la mia giornata tipo. Il mio livello di attenzione diminuisce sempre di più. Colpa della noia? Perché io mi annoio ma, allo stesso tempo, non ho un minuto di tempo.

La mia mente è affollata da mille pensieri inutili…


Scherzi a parte, mi riconosco molto in queste forme di nevrosi/distrazione. Anch'io sono tormentato dall'improvvisa sparizione di oggetti "chiave" (chiavi vere e proprie, portafogli, badge, sigarette) in momenti topici. Anch'io mi rimprovero di intrattenere/mi con numerosissimi pensieri inutili. Sicuramente perché voglio evadere da qualcosa, generalmente i pensieri di necessità, di responsabilità o di adultità (ora forse pure di vecchiaia...). Anche dalla noia. Credo che ognuno di noi faccia – più o meno consapevolmente - una selezione delle cose cui prestare, momento per momento, attenzione; e prestare mi sembra un termine quanto mai azzeccato, perché non è qualcosa che diamo mai a titolo definitivo (per fortuna). A me, per esempio, la distrazione dal presente – quindi la fuga dell’attenzione verso un’altra destinazione spazio temporale - mi abbassa l'udito. O meglio, alza dei filtri di decibel che fanno sì che spesso gli altri debbano ripetermi le cose. Io non rispondo mai alla prima domanda, a meno che non si tratti dei quiz alla TV, non perché sono sordo, ma perché la mia attenzione è altrove. Continuando a pensarci, per associazione di idee – attenzione, presenza, azione - sono andato a googlarmi qualcosa sul wu wei, il non-fare taoista. Che non è passività, ma un agire nel flusso, in risposta e non in reazione agli avvenimenti esterni. Soprattutto non considerandosi autori - qui è l'ego ad essere coinvolto, è lui che richiede la maggiore attenzione - ma solo attori. Se presti attenzione in modo totale alla vita e alle cose, fluisci nel corso dell'azione senza ostacolarla, come quando la tua attenzione è troppo rivolta ai giochi dell’identificazione del sé, né esserne travolto, come quando la tua attenzione è resa ondivaga dai giochi della mente.

Ora, se avete fatto attenzione, dovreste sapermi dire quante volte ho usato questa benedetta parola in questo post.
Ntz ntz, seeenza contaaare!


PS. Un ringraziamento speciale ad un’ignota- ma non ignara- contributrice, che mi ha passato parte del compito.

martedì 14 luglio 2009

Non.

Tutto quello che non ho detto. Le risposte che non ho dato. I bocconi che non ho assaggiato e quelli che non ho digerito. Le strade che non ho percorso. I fiumi che non ho attraversato. Le metafore che non ho utilizzato e le verità che non ho confessato. I lavori che non ho fatto. I libri che non ho letto. Le parole che non ho scritto. Gli amici che non ho cercato e quelli che non ho trovato. I bicchieri che non ho bevuto. Le donne che non ho baciato. Le donne che non ho guardato. Le donne che non ho voluto e quelle che non ho aspettato. Le donne che non ho avuto. Le lacrime che non ho versato. I no che non ho urlato. I pugni che non ho sferrato. Le corse che non ho fatto. I sogni che non ho inseguito e quelli che non ho sognato. Le promesse che non ho mantenuto. I ricordi che non ho conservato. I vestiti che non ho messo. I colori che non ho usato. Le canzoni che non ho cantato e quelle che non ho ascoltato. I film che non ho visto. Le partite che non ho giocato. I dolori che non ho provato. Le sigarette che non ho fumato. I tramonti che non ho ammirato. I salti che non ho spiccato. Le occasioni che non ho colto. Le obiezioni che non ho espresso. I limiti che non ho accettato. I compromessi che non ho rifiutato. Le bugie che non ho scoperto. I santi che non ho pregato. I culi che non ho leccato. Le simpatie che non ho cercato. Le passeggiate che non ho fatto. Gli inviti che non ho accettato. Le avances che non ho osato e quelle che non ho notato. I fiori che non ho raccolto. La merda che non ho mangiato.
Tutto quello che non ho fatto fa di me quello che sono quanto quello che ho fatto.
Fino a prova contraria.

Troppo da fare

Ma forse troppo non è la parola giusta. Tanto da pensare, soprattutto, e quasi esclusivamente a cose pratiche, a brevissimo, breve, medio e mediolungo termine.
Allora, il mio cervello viziato - pigro - si rifugia nell'instant boutaderie di friendfeed, tralasciando divertissement che richiedano un coefficiente di applicazione appena superiore - tipo il tumblr e la surripedia.
Che ci vuole a buttare là uno storpionimo? Mentre già per redigere uno Zio Bonino Fact ci va una certa quale attenzione - anche per reverenza nei confronti del personaggio.
Insomma, così, posto questo post ozioso e autoassolvente. Metto le mani avanti, cerco di captare la benevolentia piuttosto che un'idea. D'altra parte, avevo avvisato prima.
Non avete letto come si chiama questo blog?

domenica 5 luglio 2009

Silenzio. Non si fa, si ascolta.

Forse è una delle solite contorsioni mentali da causidico in cui m’intreccio
Ma se penso al silenzio mi appare che sia qualcosa impossibile da fare.
Certo non per abusate motivazioni sul sovraffollamento, sull’inquinamento acustico consolidato, sul logorio della vita senza cynar.
Ma per una semplice questione esistenziale, di una ovvia, evidente banalità.
Il silenzio c’è sempre. Anche nel fragore più totale.
Ché, anzi, è il fragore che non potrebbe esistere altrimenti, senza il silenzio che gli fa da base.
Questa constatazione, ribadisco, ovvia e banale, nasconde la sua verità con gran scioltezza.
Proprio come sa fare il Silenzio, maestro di camuffaggio millenario.
Per questo, quando qualcuno mi dicesse, per esempio, “Mi tedi
Con questo tuo saccente filosofare da strapazzo, fai silenzio!”

Io, sorridendo, lo manderei a cacare.
In grande amicizia, s’intende, e con lo sguardo,
Che non vale la pena di sprecare un altro po’ di silenzio
Per chi non sa trovarlo o riconoscerlo al momento.
Se quel che dico è ovvio, è scontato, e, sì, è banale
Vuol dire che anche vero
E elementare, Watson.
Si tratta solo di mettersi a ascoltare.
Ma tante volte, piuttosto, mi ubriaco.
Perché fare, alla fine, sembra sempre più facile che non fare?

martedì 30 giugno 2009

Solità



L’ho cercata su un paio di vocabolari. Non l’ho trovata.
L’ho cercata allora su un altro vocabolario, quello dei sinonimi e dei contrari.
Manco là, ci sta. Allora, ho pensato, mi arrogo il diritto e il demerito di coniarla, ‘sta parola.
Solità, come integrazione, complementare e di segno opposto, a solitudine.
Solità, per esprimere quella beata sensazione di essere soli e felici di esserlo.
Solità con l’accento sulla a, appunto, come felicità.
Solità, perché solitudine suona davvero come un inno al pessimismo.
L’idea originale non è mia. Gli inglesi, per esempio, due parole diverse per descrivere queste due opposte condizioni di assenza di compagnia ce l’hanno: loneliness e aloneness.
La prima è l’equivalente, come accezione, del nostro solitudine, descrivendo quello stato di abbandono, tristezza e desolazione che possono connotare in certi casi lo stare da soli.
Ma quando stai solo per tua scelta, con sommo sollievo e soddisfazione – finalmente solo – allora ti stai godendo la tua determinata aloneness. La tua beata solità.
Curiosamente, in italiano, al deprimente sostantivo solitudine corrisponde l’aggettivo solitario, che descrive piuttosto un amante della solità:
(pl. m. -àri) detto di persona, che ama star sola, lontana da ogni compagnia…
Sarà poi un caso, come mi ricorda il vocabolario, che si usi la parola solitario per definire un brillante di notevole grossezza, montato da solo su un castone?
La solità può far emergere la tua brillantezza, mentre la solitudine, probabilmente, ti spegne sempre di più, affogandoti in un buio entropico.
Non so perché ho sentito il bisogno di fare questa precisazione. Ah, sì, ora ricordo.
Certi giorni sono così affollato di pensieri che mi sembra di non essere mai solo. Leggermente e confortevolmente solo.
In una morbida e avvogente solità.
Solo che, quando l’ho pensato, mi mancava la parola giusta.

mercoledì 17 giugno 2009

Ispirazione



"...Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni,
e che da vecchio metta piede sull'isola, tu,
ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato un bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo in viaggio:
cos'altro ti aspetti?"


[da Itaca di Kostantinos Kavafis]

Lo stralcio di poesia è un gentile omaggio che ho ricevuto da Max Cosci, capomissione MSF ad Haiti e uomo di cuore.
La foto di Max, come tutte le altre foto di Haiti pubblicate in questo blog, è di Marina Biagini.

Oggi, di mio, non ho niente da dare e, come al solito, nientedadire.

venerdì 12 giugno 2009

Esserci.


Come, per esempio, Gaetan, coordinatore del centre d’urgence di Martissant 25, a Port au Prince. Con nessuna intenzione di passare per eroe, anzi.
Io non sono qui per salvare vite umane – dice – sono qui per capire come funziona.
Però, nel frattempo, Gaetan, aperto, gioviale, positivo, lavora tutti i giorni ad uno dei progetti più importanti di MSF ad Haiti - un centro attualmente in ristrutturazione, ma attivo 24 ore su 24- che accoglie e tratta la maggior parte dei casi di emergenza (pronto soccorso) non solo di Martissant, bidonville realmente desolante e sovraffollata, ma anche di gran parte della regione. Perché vuole capire dall’interno il meccanismo, dice. Intanto sta lì, e ha un ufficio stretto come una cabina del telefono, con un ventilatore sempre acceso per spostare l’aria afosa e opprimente del tropico, aggravata da un inquinamento estensivo e dalla depressione della zona - Martissant parte da un mefitico litorale e si arrampica a piastrellare con le sue baracche di cemento grigio le pendici dell'incombente montagna, resa franevole dalla disboscazione sconsiderata. Ci racconta, Gaetan, che in una sua precedente esperienza lavorativa, in un'organizzazione indirizzata allo sviluppo di paesi in condizioni arretrate, non era riuscito a soddisfare questa sua istanza di comprensione. Perché il suo ruolo, allora, lo portava soprattutto ad avere contatti con politici o tecnici che si limitavano a fare del bla bla inutile, giri di parole che tendevano a mascherare l’intenzione di conservare degli status quo più redditizi, perché consentivano di utilizzare le politiche economiche di sviluppo per sfruttare ulteriormente i potenziali beneficiari di quelle stesse politiche.
Molto meglio tenere un povero alla mercé della tua elemosina che dargli gli strumenti per imparare a diventare autosufficiente. Tanto più che l'elemosina che gli passi non arriva direttamente dalle tue tasche, ma da quelle dei contribuenti e dei donatori. E tu, organizzazione sedicente umanitaria, con l'iceberg nascosto di quell'elemosina ci campi da nababbo.
Invece, con il lavoro di MSF, soprattutto quello sul campo, Gaetan sostiene di aver avuto la possibilità di comprendere a fondo le dinamiche più intricate delle politiche socio-economiche dei paesi in via di sviluppo (si spera, ndr) in cui si è trovato ad operare. Magari questo non significa automaticamente che la situazione possa essere cambiata per il meglio, ma sicuramente dal punto di vista professionale ed umano, le intenzione prefissate sono messe in pratica in modo coerente e consistente. In modo più onesto, se non altro, più produttivo ed efficace, seppure non sempre risolutivo.
Questo, secondo me, è esserci. Davvero.
E nel mio libro - come dicono gli inglesi - fa una grande differenza.

lunedì 8 giugno 2009

La strada per Martissant



Un-edited. Senza tagli, senza montaggio, solo un pezzetto crudo, senza sale né zucchero aggiunti. Quello che è. O meglio, quello che si riesce a vedere dall'interno di una macchina. Perché a piedi, da soli, non ci hanno fatto andare. Sconsigliabile, dicono. Questo è solo un pezzetto, ripeto, solo la via principale. E' il fondo valle, a pochi metri dal mare. E' il capolinea dei detriti che le piogge torrenziali, scorrendo nelle ravines, sulle strade e nelle fogne sfondate, portano giù a capofitto, ad accumularsi dove finisce la discesa. Qui, fra questi cumuli e liquami, si tiene ogni giorno un mercato alimentare che contribuisce all'incremento dei rifiuti. Ma questo sarebbe il meno. La maggior parte delle povere mercanzie - gli onnipresenti manghi, le banane acerbe che mangiano lessate, i pesci intossicati dagli scarichi di Port au Prince, le improbabili baguette di pane avvolte nel domopack - sono appoggiate direttamente per terra. In mezzo ai rifiuti, sì, vicino ai liquami. sì, fra i maiali che grufolano, sì, sì, sì. Bene, anche oggi vorrei sospendere il giudizio. Per rispetto di questa popolazione, gli Haisyan, defraudata da politici corrotti e da sedicenti benefattori colonialisti. Su questi altri signori il giudizio ce l'ho, ma mi sembra pleonastico aggiungerlo. C'è già abbastanza sporcizia in questo post.

venerdì 5 giugno 2009

Il valore della normalità.



Nel traballante tragitto che ci porta dalla casa base all’Hopital La Trinité, gestito da MSF France, registro –solo con gli occhi – una delle immagini più forti, forse perché inattesa. Mentre la nostra jeep attraversa un tratto rallentato dal traffico, dopo una curva, sulla piazza del mercato, vedo un ragazzo magro, in piedi, che si tiene la faccia con una mano, come se fosse assorto. Quando gli passiamo davanti , vedo prima gli occhi storditi dal dolore, poi una linea di croci nere che gli attraversa la faccia, dallo zigomo attraverso la guancia il naso e l’altra guancia.
Punti di sutura grossi come, come, non saprei dire, come una fila di X in corpo 28 che gli dividono il viso da un orecchio all’altro.
Nel reparto Urgence de la Trinité il suono più allarmante è il pianto, i lamenti di un bambino che comunica perfettamente il suo dolore crudo mentre riceve il trattamento; non sappiamo né chiediamo di che si tratta, il bambino è nudo sul lettino con un catetere nel pene e un paio di tubi nelle caviglie. La porta della stanza SOINS INTENSIFS è fatta con 5 tavole di legno grezzo – due verticali e tre orizzontali – e due pezzi di rete metallica sottile, nera. Il pianto del bambino, modulato con una serie di grida acute, riesce ad accompagnarci anche se abbiamo percorso altri corridoi, attraversando altre due sale d’aspetto compostamente occupate. Intanto due barellieri portano un ragazzo ustionato. Questo posto è pieno di bambini. Qualcuno piange, altri riescono a sorridere e, a quanto dice il coordinatore che ci accompagna, sono contenti di essere ripresi dalla telecamera o fotografati. Oggi abbiamo il primo vero contatto con il dolore. Un leggero stato di shock mi mantiene silenzioso, come sedato. L’odore della malattia, all’ultimo piano –VISCERAL – è più forte. Un ragazzo, forse ha 14 anni, un viso bellissimo con un paio di baffetti radi, e una complessa armatura che sembra cercare di tenere insieme la sua gamba sinistra, accetta di parlare con noi. Ha tre o quattro ferri infilati nella gamba, che spuntano dall’ingessatura di una ventina di centimetri, come piccole antenne. Nella sua triste fissità ci chiede di comunicare alla sua famiglia che si sente solo, perché nessuno è mai andato a trovarlo dopo l’incidente. Questo ospedale ha decisamente un’impronta tropicale, di emergenza, di precarietà. Di inevitabilità. Tutto è essenziale qui, molte le pareti di compensato grezzo, i container delle medicine appoggiati in cortile, rivestiti all’interno con fogli di polistirolo di recupero – per l’isolamento termico - con la semplice aggiunta di una lampada all’interno, sono diventati magazzini. Nonostante tutto ciò, il nostro accompagnatore, Guenaël, raccontandoci che dentro questi cassoni hanno stoccato il fabbisogno di 6 mesi di farmaci, trasmette una grandissima serenità. E, ancora più importante, un assoluto senso di normalità. Mi sembra inutile aggiungere un mio commento.
...

giovedì 4 giugno 2009

Parole in libertà



Cartellino bianco, li lasci morire…camminavi nella placenta…3500 casi rossi al mese…la salle d’urgence è operativa…in campagna sono poveri, non hanno niente, ma nemmeno l’inquinamento, vengono in città con il miraggio del lavoro e diventano miserabili…Port au Prince ha tremilioniemmezzo quattromilioni di abitanti…la metà della popolazione di Haiti vive a Port au Prince…uomini in short che entrano nei tombini con l’acqua della fogna fino al petto e la svuotano dai detriti con un secchio…le tubature sono tutte sfondate…l’ultimo ingegnere che ha provato ad aggiustare la fogna l’hanno ammazzato…perché se c’è la fogna sfondata c’è lavoro…lavorano per un tozzo di pane…diecimila bianchi fra UN, NGO e soldati…gli americani hanno imposto agli haitiani di ammazzare tutti i maiali autoctoni e li hanno sostituiti con i maiali americani, importati…ancora negli anni ’80 Haiti produceva 250 milioni di tonnellate di riso, ora ne produce solo 50 milioni, di riso transgenico americano, che però non cresce…così si crea la dipendenza…quello che facciamo qui è svuotare il mare con un secchio…non serve a niente, dovremmo andare via tutti…restando qui forniamo un alibi ad una classe politica parassita che vive sulle elemosine dei bianchi…quello di cui avrebbero bisogno è un dittatore, buono, magari…

mercoledì 3 giugno 2009

La terra di mezzo.



Entri in una sauna, tutto vestito. Epperò hai subito la sgradevole sensazione che, al posto del vapore balsamico dei trucioli di betulla, intorno a te graviti la nuvola mefitica di un camion esausto, che ormai va più ad olio che a gasolio. Il cielo è grigio paro, senza uno squarcio d’azzurro, e alle quattro di pomeriggio sembra già sera. Le voci forti, i modi bruschi, le buche nell’asfalto grosse come doline. E pensi che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella definizione “terzo mondo”, pensi che la classifica dovrebbe essere stilata al contrario. Quanto più ti allontani dallo stato originario, primitivo, tanto più il mondo in cui vivi dovrebbe essere contrassegnato da un numero crescente. Foresta pluviale ancora non raggiunta Google Maps? Questo è il primo mondo! Mentre la qualifica di terzo – o quarto – mondo toccherebbe più a noi che viviamo in un supermercato, dove tutte, o quasi, le sensazioni sono incellophanate, adulterate, presumibilmente sterili. Ma questa specie di girone dantesco che appare essere Port au Prince è più probabilmente una Terra di Mezzo. Ci sono gli orchi Uruk-hai, sotto le spoglie di corpulenti e fatiscenti camion Mack, maggiori invasori delle carreggiate e della troposfera locale. Avanti, indietro e tutto intorno a loro brulicano altri orchi e mezzi orchi di lamiera, rumorosi, fumosi, ammaccati da mille battaglie. Alcuni invece sono coloratissimi, ricoperti di scritte a carattere religioso, con diffusori acustici che fanno tremare il terreno sulle note di cavernoso rap creolo. E sono pieni di gente a bordo. Si chiamano Tap-Tap, ci diranno poi, sono degli autocarri, quelli con il cassone per intenderci, e sono il mezzo di trasporto pubblico più diffuso di Haiti. Sono delle enormi scatole di sardine – con tutto il rispetto per i passeggeri – che partono quando sono piene e si fermano quando uno degli strizzati a bordo batte con la mano sulla lamiera “tap, tap...”, con una forza sufficiente a sovrastare i decibel del sound system che presumibilmente assorda il conducente. Tutto sommato un tragitto conveniente, finché rimani vivo. Le carreggiate sono intasate in entrambi i sensi di marcia e il nostro autista, per evitare almeno qualche tratto di questo ineludibile traffico, non disdegna un po’ di fuoristrada; praticamente qualsiasi strada secondaria non asfaltata è un livello 1 del Camel Trophy, con l’aggiunta di cumuli di rifiuti per arricchire il percorso. Ma questo è un alltro discorso. Per fare pochi chilometri c’è voluta un’ora, è sceso il buio che attutisce il degrado, il traffico cala mentre la jeep continua a salire. L’aria è più leggera a Petion Ville, periferia collinare di Port au Prince dove a novembre scorso è venuta giù una scuola totalizzando 93 vittime. Siamo quasi arrivati, ci dicono. Infatti, dopo qualche minuto, oltre un piccolo ponte sulla ravine – il greto di un torrente, dove i senzatetto abitano provvisioriamente fino alla prossima piena – il consolante l’emblema di Medici Senza Frontiere spicca rosso su un alto cancello di metallo bianco. Meno consolante è il doppio giro di razor wire che guarnisce l’alto muro di cinta della casa base. Eppure MSF , ci dicono, è forse la più amata fra le numerose ONG che pullulano nell’isola. Infatti le guardie all’interno non sfoggiano i fucili a pompa che abbiamo visto in mano ad altri guardiani. Benvenuti a destinazione. E’ solo il primo assaggio, ma si preannuncia saporita questa parentesi creola.

giovedì 28 maggio 2009

Mesi anpil* Emmesseff


Non mi sento ancora in grado di stilare un bilancio dettagliato, ma i ringraziamenti a MSF sono spontanei. E sacrosanti.
Per me e per i miei compagni di viaggio, questa settimana a Port au Prince è stata preziosissima umanamente, senza considerare nemmeno il lato professionale.
Per la gente di Haiti, la presenza di Medici Senza Frontiere - nel paese dal '91 - è qualcosa di impagabile.
Nel vero senso della parola.
In una nazione in cui la maggioranza delle persone vive con un dollaro al giorno e accedere ad un pronto soccorso statale costa mezzo dollaro, MSF che accoglie gratuitamente tutti rappresenta in molti casi la differenza fra la vita e la morte.
Questo significa che se la situazione politica del paese non prenderà una svolta definitiva, passando da una condizione di dipendenza assoluta dall'estero (USA e Canada, in primis, Francia in second'ordine) ad una partnership che consenta realmente un progressivo sviluppo dell'economia locale, qualora MSF dovesse lasciare Haiti il baratro tornerà ad essere definitivo e gli unici indici che cresceranno saranno quelli di mortalità.
Nei prossimi giorni, un po' per volta, riporterò un po' di impressioni più personali. Oggi, di nuovo, soltanto i ringraziamenti a tutte le persone di MSF che ci hanno regalato questa esperienza e, ogni giorno, illuminano con la loro presenza la vita di un popolo sull'orlo dell'abisso.

*forse è pleonastico: mesì anpìl è la versione creola di merci beaucoup, grazie tanto.

martedì 19 maggio 2009

Alcune banalità.


Perché la vita sembra, a volte, noiosa e banale? Perchè talvolta lo è, viene spontaneo dire. E' scontato, no?
Non credo. Non credo ci sia nulla di scontato, nella nostra vita.
E' un vezzo, soprattutto per noi partecipanti al grande Monopoli chiamato civilizzazione, dare per scontato un numero sempre maggiore di aspetti dell'esistenza.
In molti angoli del mondo, quello che è scontato qui, ha tutto un altro prezzo. E, soprattutto, un altro valore.
Mi è stata offerta un'opportunità di vederlo da vicino. Penso sia un privilegio, e ne sono grato. Anche se non sarà, probabilmente, un pic nic.
Ve lo saprò dire, insh'allah, fra una settimana circa.
Nel frattempo, se volete, rivalutate alcune banalità della vostra vita.
Un caro saluto a tutti.

lunedì 11 maggio 2009

Napolì, Napolì.


Non chiedetemi perché l’accento sulla ì, oppure sì chiedetemelo, oppure non fa niente, ve lo dico l’istesso. L’accento, come tutti saprete, è un segno diacritico – ma parla come magni!!!- che si utilizza per connotare significativamente un fonema e, di conseguenza, la parola in cui è inserito. In questo caso, per farla breve, l’accento sulla ì vuole connotare significativamente la mia esultanza per un’esperienza douce douce – come direbbero in Francia, che con Napoli ha un legame atavico – che nella sua brevità mi accompagna ancora piacevolmente, due giorni dopo. Famola breve, venerdì pomeriggio, con la mia carioletta Atos Hyundai mi sono imbarcato sull’A1 direzione Nav’ul’, per una seratina sufi (due ore anna’, due ore di sema’, due ore a torna’) che più che un derviscio rotante mi sentivo un derviscio errante. E devo dire, perché lo devo dire, che non ero proprio rilassato all’idea di attraversare Napoli con la macchina. Saranno stati i ricordi del traffico di vent’anni fa – file di macchine parcheggiate lungo la linea di mezzeria! – saranno state le migliaia di tg minacciosi visti in questi ultimi anni, sarà stato Gomorra e dintorni, però qualche pensierino ce l’avevo, avvicinandomi alla tangenziale. Bon, proprio dalla tangenziale, invece, cominciava la meraviglia. Quanto è teatrale Napoli, ho pensato, nel senso scenografico del paesaggio, soprattutto vista dalla tangenziale. Nel punto più rallentato, venerdì sera – da Corso Malta a Capodimonte, per la cronaca – potevo ammirare l’ondeggiante fondale delle colline impalazzinate, i torreggianti palazzoni del fondo valle (mi perdonino i napoletani, non conosco la toponomastica partenopea), squarci di mare azzurro, quinte di Vesuvio e cielo e luna. E poi, meraviglia delle meraviglie, scivolavo fluidamente senza interruzione nel tanto temuto traffico, come se avessi assorbito la magia del genius loci, che rende tutto più facile. L’aria era dolce – per la seconda volta sono stato tentato dal napoletanismo, ma a leggerlo scritto mi fa una brutta impressione, meglio sentirlo dire dai napoletani – e la città non sembrava né rumorosa né inquinata. Mo’, sarò stato fortunato io, avrò attraversato le zone più curate, questo può dirlo solo chi la conosce quotidianamente, comunque ero proprio felice di guidare su questi viali bordati di palme. La mia guida, il mio Virgilio, per così dire, ha poi completato l’opera di benvenuto conducendomi, una volta lasciata la macchina, a prendere quello che lui descriveva come “il più buon semifreddo di Napoli”. Ora, io non posso essere un giudice attendibile, ma quell’esperienza organolettica ha creato una discontinuità nella memoria delle mie papille gustative. Non posso dirvi il nome del negozio, ma sono sicuro di saperci ritornare, quindi…
Detto questo, lo scopo della viaggio era un incontro, Sufi, di cui mi spettava, per così dire, la conduzione. Anche qui, ho avuto la sensazione di essere stato gentilmente guidato, di aver soavemente galleggiato in un bacino movimentato assai, dalla gioiosa partecipazione di venti persone, quasi tutte sconosciute, che non hanno esitato a seguire le indicazioni talvolta balzane di questo fricchettone arrivato da Roma, con una freschezza e una totalità che mi ha toccato più di quanto non abbia dato a vedere. Una gioia, una commozione e un ossimoro di beatitudine: la leggerezza che va in profondità.
Quando mi accade di fare un’esperienza del genere io posso solo dire grazie.
E non ricordando tutti i nomi, ma solo i visi - quellì sì, tutti davvero- ringrazio Osho No Mind di Napoli e chi, con amore, lo cura.
Posso soltanto dire grazie, ripeto, ma non perché l’esperienza e chi vi ha partecipato non meritino di più.
Solo perché di più, senza complicare una cosa bella nella sua semplicità, non riesco a dire.
A parole. Spero di esserci riuscito con la presenza.

venerdì 8 maggio 2009

Se vi gira.


Stasera ci possiamo vedere a Napoli, core a core.
Un salam aleikum a tutti.

giovedì 7 maggio 2009

Se non altro...


...oggi che non ho niente da dire, anche per queste quattro parole, non spreco carta.
Nessun albero è stato danneggiato per la mia vanità. Spero che respirerete meglio, ora.

martedì 5 maggio 2009

In nuce.

C’era un bambino, che si chiamava Teo, che tutti i pomeriggi si nascondeva al mondo. Lo faceva senza dirlo. Potremmo dire che lo faceva, addirittura, senza farlo. Non è che, infatti, andasse a rintanarsi in qualche anfratto. No. Semplicemente chiudeva, dentro di sé, tutte le porte. I suoi occhi erano aperti, né fissi, né sgranati, né vuoti. Semplicemente abbandonati su una cosa qualsiasi. La bocca era chiusa, senza essere serrata. Le orecchie, non si vedeva, ma non ricevevano più alcuno stimolo dall’esterno. Il naso continuava a far entrare ed uscire aria, ma tutti gli odori che l’accompagnavano erano per Teo lettera morta. Le mani, generalmente, le teneva appoggiate sulle cosce, ma avrebbero potuto anche girargliele e mettergli un pezzo di cioccolata sul palmo senza ottenere alcuna reazione. Ora, gli adulti, che per fortuna erano in quei momenti assenti, avrebbero usato una brutta parola per chiamare lo stato in cui Teo sceglieva di stabilire temporaneamente la sua residenza. Catatonia, avrebbero detto, e non si tratta di una regione tedesca. Oppure autismo. Ma cosa sono le parole, se non etichette per delle cose che crediamo di conoscere, guinzagli che usiamo per accalappiare un senso che ci sfugge e incatenarlo là, dove abbiamo l’illusione che non ci possa scappare. Teo, che queste parole non conosceva, aveva il gusto di assaporare il senso di tutto e di ogni cosa. Pieno, complesso e variegato, come un mastello di gelato a mille gusti. Mille gusti e colori che si inseguivano e si alternavano, intrecciandosi e sovrapponendosi senza confondersi. Per tutto quel tempo senza tempo in cui Teo si nascondeva al mondo. Nel silenzio indotto dalla sua ricercata chiusura, Teo assaporava settanta miliardi di suoni e sensazioni che, volendo proprio definire con una parola, avrebbe detto musica. E la luce assoluta del suo buio aveva un solo nome per lui: casa.
Entrando nell’assenza era arrivato, senza sforzo, all’essenza.
L’estasi è sempre a portata di mano, per i piccoli. Ai grandi piace molto di più complicarsi la vita.

giovedì 30 aprile 2009

Buon Primo Maggio.



Speriamo che dopo i papaveri tornino a fiorire altre cose. Un gran partito, per esempio. Dei lavoratori, magari.
Di nuovo, buon Primo Maggio a tutti.

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