mercoledì 14 dicembre 2011

In tempo di carestia

Quando scarseggiano le idee e persino il tempo per andarne a cercare, trovare o ripescare/ripulire/riciclare qualcuna, io penso ad una ricetta. Non una ricetta esistenziale. Una ricetta culinaria, senza doppi sensi. Anche se. In questo caso, contravvenendo alle leggi dell'abitudine, posterò una ricetta esistenziale: le strascenat' ch'le cim' de col' c'u lardidd'shfritt. E' una ricetta legata al ricordo di mio padre, radicata nella sua terra d'origine, la Puglia, ma germogliata con passione nell'aiuola della nostra famiglia un po' meticcia, a Roma. E' la ricetta di pasta che ha sostituito nel mio cuore la carbonara, il mio primo amore ai fornelli, quello che ho imparato a fare a 16 anni, persino prima del sesso. E'sorella della più famosa strascenat'ch'le cim'd'rap, ma ha molti tratti affini con la gricia e con la carbonara, che brillano nei menù dell'hinterland romano (e non solo). Andiamo al sodo: gli ingredienti di base, oltre alla pasta, sono il broccolo romano - cimarolo, verde, puntuto - e il guanciale. Il giusto corredo è l'olio extra vergine d'oliva, che può benissimo essere sabino - meno acido e denso del pugliese, ma altrettanto prezioso - e il pecorino romano. Riempi per tre quarti un pentolone con acqua salata e metti sul fuoco, mentre mondi e "scacchi" (distacchi le infiorescenze,una ad una)il broccolo, che metterai subito a bollire nel suddetto pentolone. Da una bella fetta di guanciale, inerta un dito, taglierai dei bei tocchetti, dopo aver rimosso la cotenna, e metti a soffriggere in una padella con un par de cucchiai d'olio. Quando il broccolo è avviato a cottura, ma ancora molto al dente, butti la pasta e apri una parentesi. Anzi, la parentesi la apro io: dosi e tempi. Con un broccolo medio ci si può ben condire dalle 4 alle 6 porzioni. Meglio se lo metti a bollire in "cacchi" piccoli e ti prendi la briga di fare a dadini i pezzi di torsolo più coriacei, che priverai di un po' di scorza. Considera che se vuoi fare le orecchiette casarecce secche devi considerare dai 12 ai 15 minuti di cottura, quindi calcola bene la bollitura del broccolo, perché non sia troppo duro quando scoli la pasta. Se anche venisse un po' più morbido non è un problema, perché si amalgama anche meglio con pasta e condimento. Con mezzo chilo di orecchiette secche mangiano comodamente 6 persone normali, ma solo 4 se so' sprocedate. Un'ottima alternativa alle orecchiette sono le mezze maniche rigate o i paccheri. Se il broccolo è a pezzi molto piccoli ed è molto cotto, anche i fusilli a elica fanno una bella figura. Quando la pasta è cotta giusta - attento alle orecchiette artigianali, che sono callose al centro e spappolano sul bordo - scola il tutto, serbando un po' d'acqua, e trasferisci nel padellone del guanciale. Aggiungi il pecorino, qualche cucchiaio d'acqua e amalgama per qualche secondo. Se non hai esagerato con l'olio nel soffritto, puoi aggiungerne un'altra crocetta accrudo (sì, accrudo, vabbè?). Una spolverata di pepe nero, appena macinato è la sublimazione necessaria per l'amalgama dei profumi. Sporziona con contezza, affinché tutti godano della stessa quantità di condimento. E' un primo strutturato, e io lo accosterei a un bianco sapido e rustico, ma non disdegno mai un abbinamento "in levare", come un Gewürztraminer, bello aromatico e profumato. In tempo di carestia di nutrimento per lo spirito, nutrire il corpo è la cosa che più ci si avvicina. Se lo fai con lo spirito giusto, il cerchio è chiuso.

mercoledì 30 novembre 2011

BASTA POKE

Basta poke Per farsi contattare Basta poke Per pensare di comunicare Che gli amici Subito ti ricambiano il favore Si fa in fretta A mollare la botta E d’altronde lo facciamo Tutti i giorni ci ricaschiamo Si fa finta di prendersi cura E ci si limita a digitare Ci si scarica la coscienza Con questo timbro di presenza Basta premere quel pulsante Per sentirsi un po’ più importante E intanto che perdiamo tempo La giornata se ne va in un lampo Basta poke Per non dire mai un cazzo Basta poke Per continuare ad essere egoisti Basta poke Per non sentirsi in colpa Basta poke, sì Per illudersi di contare qualcosa Eppure stiamo tutti lì A scambiarci ste gomitate Che non hanno manco il gusto Delle chiacchiere, delle cazzate Questo freddo surrogato Di un incontro, di una telefonata Di un abbraccio o una passeggiata È solo un riflesso condizionato Basta poke Limitiamoci al necessario Basta poke Pratichiamolo all’incontrario Basta poke Poche volte in mese o due Solo quando non ti è possibile Farti sentire o passare a trovare Basta poke E non ti offendere se non ti ripondo Da ora scriviamoci un messaggio Se non possiamo telefonarci E smettiamola di sgomitarci Cominciamo un po più a rispettarci. (Ndr. Ringraziando Vasco Rossi per il prestito inconsapevole, gli rinnovo tutto il mio quasi inesistente apprezzamento, per il contributo che pensa di aver dato al Rock. Che comunque è sempre maggiore di quello che pensa di avergli dato il biascicatore di Correggio.)

giovedì 17 novembre 2011

MEZZA PIOTTA

Ai tempi in cui ero pischello, l'unica accezione del termine sopraindicato era, appunto, quella raffigurata dalla moneta. Ho recentemente scoperto in un sito di numismatici, ma non ho avuto modo di convalidare l'ipotesi, che il termine piotta
deriverebbe da Pio, ovvero dal Pontefice Pio IX che per primo coniò a Roma una moneta da 100 Lire (in oro, 32,25g). La moneta si sarebbe chiamata per l'appunto piotta per generazione dal nome del pontefice di una forma diminutiva/vezzeggiativa.
Con questa mezza piotta qua sopra, all'epoca in cui ero bambino, si comprava mezzo litro di latte, più o meno. Qualche anno più tardi, quando ero fanello, il termine godeva di una maggiore diffusione come sinonimo di banconota da cinquantamila,
entità rispettabile e rispettata quasi quanto il geniale artista raffiguratoci sopra. Con quella mezza piotta cartacea, in quegli anni, si compravano un sacco di cose - a proposito "un sacco" era invece questo
e cominciava a non valere più molto. Al giorno d'oggi, con mezza piotta non si indica - non diffusamente, almeno - la banconota da 50 euro, che per molti rappresenta ancora l'equivalente di quasi 100.000 lire. Allora, che cosa posso fare con questa obsoleta definizione? Mah, forse semplicemente usarla per segnare il tempo che è passato. Come il tempo che è passato ha segnato me.

venerdì 28 ottobre 2011

Nientedadire: fuck halloween

Nientedadire: fuck halloween

fuck halloween

Come ogni anno mi ripeto: halloween mi fa cagare.
Allontanate da me le zucche ornamentali.
Non mandate i vostri figli a farmi dolcetto o scherzetto.
Non mi invitate a qualche festa a tema
Ditemi pure che sono retrogrado perché rifiuto
un'operazione commerciale - proprio io, che ipocrita! - camuffata da tradizione.
Non è una nostra tradizione, è solo, ripeto, un'altra infezione consumistica.
Ce l'abbiamo una tradizione in questo periodo, e non è vestirsi da streghe, scheletri, teste di zucca.
Scavare una zucca, intagliarla e metterci una candela dentro, posso anche sopportarlo come divertissement ornamentale. Ma basta così.
Io mi ricordo solo che, di questi tempi, le mamme mettevano dei lumini di cera davanti alle foto dei cari che se ne erano andati, con un piccolo vasetto di fiori.
Non era glamour, no, ma dava un'atmosfera di sacralità a quell'angolo di casa che, per miei occhi di bambino, era assolutamente magica.
Sì, vabbè, ma i bambini si divertono di più con halloween!
"Continuiamo così, facciamoci del male."
Mi scuserete la citazione un po' semplicistica, mi perdonerete l'assenza di ricerca e documentazione a supporto, ma questo è un blog, non un rotocalco e allora vi accontenterete della lamentela anacoluta, così come viene, se vve va.
Io credo che un bambino cresca bene anche senza l'ossessione di divertirsi sempre, o meglio, credo che un bambino crescesse bene anche quando nel periodo "dei morti" ci si limitava ad "onorare i defunti", con i lumini - moccolotti, a Roma - qualche crisantemo, magari anche una visita al camposanto. Chi ha avuto la ventura di fare un giro nella parte più vecchia del Verano potrà capire quanto quell'atmosfera quieta e fuori dal tempo sia tutt'altro che lugubre, anzi, quanto fascino quelle statue e quelle suggestive scritte sulle lapidi possano esercitare, anche su un bambino. Senza dover per forza immaginarsi che un drappello di zombie ne esca fuori per inscenare una coreografia dinoccolata, per apprezzarlo.
Mi rendo conto che quello che ho scritto sembra la classica filippica antimodernista, a sostegno delle vecchie tradizioni e contro l'innovazione.
Tant'è.
Come ho detto, questo è un blog, infatti, un manoscritto cartaceo, riposto nel più remoto dei tiretti del mio secretaire.
Quando avete finito di leggere, rimettete a posto le ragnatele.

giovedì 29 settembre 2011

Il sacrificio di Abramo

Senza soffermarmi sulla diatriba - che ho recentemente ascoltato per radio - riguardo alla correttezza di definire quel sacrificio di Abramo (carnefice) oppure di Isacco (vittima), mi interessava osservare come accada, a volte, di trovarsi di fronte ad impegni che ci vengono presentati dall'Esistenza con un'ultimativa necessità di fare delle scelte polarizzanti.
Non drastiche come quella presentata ad Abramo, intendiamoci, o almeno, non altrettanto irreversibili.
Ma, credo che molti di noi riescano a rapportarsi con quella inconfortevole sensazione di spadadidamoclità® (:-D) che certi impegni sembrano comportare, quell'ineludibile necessità di sacrificare un certo valore (o un valore certo, se volete) in modo da poter ottemperare a degli obblighi che sono squisitamente morali - non legali né materiali, per intenderci - e, molto più spesso che no, autoimposti.
Nel senso che, diciamolo, per essere quello che crediamo di essere e che intendiamo continuare a credere di essere, abbiamo scelto, più o meno consapevolmente, di fissarci dei paletti fatti di convinzioni e di comportamenti.
Esaurita questa verbosissima prolusione, il punto che mi interessava mettere a fuoco è quello esistenziale.
Tu sei lì che ti dibatti, fra l'impegno cui senti di dover ottemperare, ma che ti costa difficoltà, fatica, rinunce - come dicevamo? sacrificio, appunto - mentre ti arrabatti nel cercare tutte le possibili scappatoie che, comunque, anche lasciandoti immacolato agli occhi dei possibili testimoni esterni, inevitabilmente continuerebbero a prudere e a bruciare nella tua coscienza.
Tu lo sai che "ti tocca", devi farlo tu, e anche se la soluzione alternativa è altrettanto efficace, oltre che più comoda per te, tu DEVI.
Arriva quindi il momento in cui le alternative praticabili che non hai scartato tramontano autonomamente - eh, sì, perché spesso il destino ti beffa proprio in zona Cesarini - e ti imponi di arrenderti al giudice interiore e, rimboccandoti le maniche, ti accingi ad affrontare il sacrificio, qualsiasi forma esso scelga di assumere.
La tentazione di portare qui ed ora un esempio pratico è forte, ma è fuorviante: ognuno ha le sue scale di valori.
Quello che importa è che tu abbia alfine deciso di onorare la responsabilità che ti sei assunto/a.
E così, mentre con qualche accigliamento ma nessun infingimento ti accingi a compiere in un sol colpo un'azione meritevole e un sacrificio necessario, accade che un'altra soluzione si manifesti ex abrupto, evitandoti il più o meno gravoso compito di concludere l'intrapreso.
Il sollievo, quando arriva inaspettatamente, è senza dubbio ancora più benedetto.
Ma trovo interessante riflettere soprattutto su questo punto: è possibile che la nostra Intenzione di tener fede ad una promessa che ci costa qualcosa come un sacrificio sia un motore a volte così potente da spingere la soluzione verso di noi anziché il contrario?
Ammesso che una domanda del genere possa aver risposta, ogni volta che mi accade qualcosa del genere ci faccio caso. E un piccolo sorriso, impercettibile, mi scalda dentro.
Non è per il sacrificio risparmiato, ma per la miracolosa combinazione degli eventi.
Ho un debole per le combinazioni: non a caso aprono le casseforti.

giovedì 22 settembre 2011

Un sasso nello stagno

"Eppur si arroga
Il diritto di proroga
E dal diritto comune deroga
Contrastando il diritto di chi interroga
I colpèvoli perché sempre alla toga
Di gran lunga preferisce la figa
E tutti i suoi complici soggioga
Affinché acconsentano alla fuga
Cerca invano di nascondere ogni ruga
E di investire di segreto ogni sua bega
Detestando chi nei suoi affari fruga
Mentre il patrimonio pubblico prosciuga
E dalle riforme si tiene assai alla larga
Perché la merda nel suo cuore alberga
E l’unico suo interesse è la sua verga
Che affonda volentieri nelle terga
Del prossimo che par non se accorga
Altrimenti di un’altra Norimberga
L’avrebbe cancellato l’aspra purga
Perché non manca chi un alibi gli porga
Così, prima che altro fango sparga
Un vento di spiriti e di intenti sorga
Che il giudizio e il castigo giusto imponga
Vorrei vedere alfin sta sanguisuga
Mentre nel mare del suo tramonto annega.
Per questo lascerò dispara la riga
Che questa segue e sventola la daga…"








mercoledì 14 settembre 2011

Libri di sangue

Accompagnando il mio bambino a scuola, stamattina,
ho riascoltato, per fargli ascoltare, questa canzone.
E a un certo punto, ricantandola dopo tanti anni,
mi sono dovuto mettere gli occhiali da sole.
Non era solo la nostalgia.
Non è soltanto la vecchiaia.
Anche quasi vent'anni fa, quando arrivava ad un certo punto,
l'emozione prendeva il sopravvento.
Già, con questa canzone.
E' vero quello che sosteneva il titolo di questo disco, "Verba Manent".
E quelle di questa canzone sono ancora qui, pronte a far sanguinare la coscienza.

lunedì 12 settembre 2011

Etimologia della cozza


Mi corre l'obbligo, nonché il privilegio, di dirimere un'annosa questione linguistica, di dissolvere un fastidioso fraintendimento che, alimentato dalla esecrabile ineducazione proposta da certa filmografia e dalle televisioni nostrane, si è consolidato nell'accezione comune della metafora in oggetto, che ho ritagliato direttamente dal meritevole Wikipedia.

Nel Centro-Sud, il termine "cozza" ha assunto recentemente un'accezione gergale e metaforica, di probabile provenienza romanesca, connotante una donna o ragazza decisamente brutta

Apparentemente, discettandone con connazionali non provenienti dalla capitale, ma anche con concittadini dell'Urbe appartenenti alle generazioni posteriori alla mia, l'equazione cozza=ragazza decisamente brutta parrebbe essere correlato all'aspetto esteriore di entrambe.
Cioé, secondo questa moltitudine di disinformati, il Mytilus galloprovincialis avrebbe una brutta conchiglia e tale involucro giustificherebbe l'utilizzo del suo sinonimo vulgaris per descrivere, con accezione derogatoria oltremodo pesante, una ragazza o una donna di fattezze inequivocabilmente sgradevoli, secondo i canoni più comunemente diffusi.
Scavalco a pie' pari l'opinabilità dei criteri estetici riguardo al genere femminile; non sono un filosofo.
Vorrei solo dissentire profondamente, però, sull'estetica del mollusco, prima di arrivare alla questione nodale, il qui pro quo.
Ritengo che la conchiglia della cozza - una volta ripulita dal bisso che ne ottunde la forma e la texture - sia un mirabile esempio di design, un packaging per finger food naturalmente dotato di Armani look.


Allora, veniamo direttamente al punto:
non è con l'esterno della cozza che si paragona un'invetusta pulzella,
ma con l'interno.





Ora, attenzione, la lettura di quello che segue è sconsigliato a chi abbia uno stomaco delicato o un animo suscettibile.

A Roma la prima accezione vernacolare del termine
COZZA,
escluso il significato intrinseco di mollusco edule, è

AMMASSO ESAGERATO DI ESPETTORATO CHE GUARNISCE CON IL SUO GIALLO INTENSO IL GRIGIO SPENTO DEI MARCIAPIEDI.

In parole povere, uno sgommarello di catarro, abbandonato per la via con nonchalance, generalmente da vecchi o incalliti fumatori o pazienti affetti da bronchite cronica.

Naturalmente mi asterrò dal corredare questo post con adeguata documentazione fotografica a sostegno della pittoresca ancorché azzeccata metafora romanesca che, per translazione, è stata successivamente estesa alle rappresentanti del gentil sesso con non altrettanto gentile aspetto.

Non posso esimermi dal manifestare la mia solidarietà a tutte quelle donne che, anche se solo una volta, anche se solo per celia, si siano sentite apostrofare in cotal guisa.

A loro dedicherei due favole di Esopo, questa e questa, come parziale risarcimento morale.

venerdì 12 agosto 2011

Karma e gesso

Ho visto una luna quasi piena
che illuminando il cielo a bella posta
toglieva alle stelle cadenti i loro pochi secondi di gloria.
Ma forse questo è solo un modo di vedere questa storia
Potrebbe essere
che fosse un sentimento solidale
quel suo obnubilamento luminoso
un diversivo altamente pietoso
di distrarre occhi attenti dalla caduta
senza ritorno e senza echi di cronaca
di quelle povere stelle pensionabili.
Ho visto un vento a sprazzi
che strapazzava il giornale di un papà
impedendogli dispettosamente di aggiornarsi
sulle ultime imperdibili notizie di calciomercato
molto più tenacemente di quanto
riuscisse a fare suo figlio di tre anni
in crisi d'astinenza di attenzione
Ma forse questo è solo un modo di vedere questa storia
Potrebbe essere
che la coscienza del papà dietro la rosea
nutrisse appetiti più spirituali
e soffiando un anelito di risveglio
lo liberasse dalla sua scusa per non essere presente
costringendolo a impegnarsi col suo sé
come in realtà avrebbe desiderato fare dal principio
del campionato.
Ho visto un cane
pisciare tutti i giorni su una ruota
tutti i giorni sulla stessa identica ruota
porca troia sempre della mia auto.
Potrebbe essere
che sia pretestuoso
cercare sempre dei segnali karmici
tracciati con un gesso invisibile
in tutto quello ch'accade attorno a me.


martedì 9 agosto 2011

Esuberando



Ho visto una pescivendola esuberante
che brandiva un covone di treccioline ossigenate
nonostante la cinquantina abbondante
come il suo opulento ottimismo e l'accento padano
così incongruo in una pescheria dell'hinterland romano
Esuberando
voleva vendermi un'orata a peso d'oro
dopo avermi nettoyato una sogliola con le forbici
riducendola alla stegua di un lattarino
Esuberando
voleva vendermi il suo magico olio di colza
che a suo incongruo ed esuberante dire
poteva friggere anche un copertone
lasciando un leggero sentore di Chanel per giorni e giorni
Desuberando
le ho chiesto se accettava travel cheques
tratte, cambiali, assegni, mastercards
o più semplicemente, un esuberante bancomat di serie
Esuberando
mi ha indicato la banca dirimpetto
abbozzando un sorriso abbronzantemente circondato
con nonchalance le ho indicato altre due orate
che costavano come del pesce di acqua dolce
e ho assistito al tramonto del suo ottimismo
mentre confezionava il meno esoso pacco
Esuberando
ho cucinato le orate con dedizione
acconciandole con il dovuto corredo
di aglio e prezzemolo dentro ed olio fuori
circondandole con affetto di patate, piccole e novelle
e il risultato si è fatto apprezzare, onestamente
L'esuberanza va sempre ben riposta
altrimenti appassisce in fretta
come le treccioline ossigenate
l'abbronzatura intensiva
e l'ottimismo padano
in una pescheria dell'hinterland romano.

lunedì 8 agosto 2011

Capochino

Ho visto un uomo tristissimo
camminava a capochino
trascinando il suo carrello della spesa
semivuoto
che forse non era il carrello della spesa
mammmagari gli serviva a portare i volantini che odiamo tutti
quando ce li inzeppano nella cassetta della posta
camminava a capochino
con una maglietta verde speranza sbiadita
fissando il vuoto del marciapiede
per fortuna ha incrociato una donna
anche lei con il carrello
e per parlarle ha alzato la testa
mentre attraversavano la strada
va bene la tristezza, ci può stare
ma non si attraversa la strada a capochino
trascinando un carrello della spesa
semivuoto
perché quando arriva il camion che ti investe
non riesci manco a fare una morte scenografica
con tutte le arance che rotolano sull'asfalto
e qualcuna rimane anche un po' spiaccata
che fa tanto simbolo e anche un po' sangue
va bene, quando c'è la tristezza, ci può stare
ma se il carrello rimane chiuso
nel suo semivuoto silenzio
la morte perde pathos
allora è meglio buttarsi da un ponte di notte
che non ti vede nessuno
e non ti viene manco a cercare la polizia
per farti una multa
perché il carrello semivuoto che hai lasciato in mezzo al ponte
ha fatto accartocciare tre corrieri espresso alti di coca e red bull
e poi nessuno avrebbe da ridire
della maglietta verde speranza sbiadita
insomma, volevo dirti che a capochino
non si va molto lontano
tanto vale fermarsi
subito.

domenica 7 agosto 2011

Cari commercianti.

Cari commercianti,
che talvolta vorreste suscitare la mia solidarietà, per la crisi che ha ridotto i vostri introiti e vi costringe a svendite o chiusure, quando non optiate per l'astuta formula del fallimento e riapertura, volevo ricordarvi che, quando all'arrivo dell'euro il mio stipendo si è praticamente dimezzato, annullando i progressi di 20 anni di carriera, voi vi siete semplicemente limitati a cambiare la lettera barrata davanti ai vostri prezzi, passando dalla £ alla €, con un piccolo investimento in talloncini. Cari commercianti, in soldoni, voi avete raddoppiato.
Cari commercianti, che spesso non mi date spontaneamente lo scontrino e talvolta storcete il muso quando ve lo chiedo, vi rammento che a me le tasse le tolgono direttamente da quello stipendio dimezzato di cui sopra, senza colpo ferire, e sono un bel 40% del lordo, per dire. Cari commercianti, non è mia intenzione essere evasivo, quindi sarò franco: vi piace arricchirvi alle mie spalle.
Cari commercianti,lo so che non è tutta colpa vostra, è un po' come la storia del peccato originale, l'occasione era un bel serpente tentatore, ma molti di voi, che avrebbero potuto fare una scelta etica, perché non incatenati dalle economie di scala, non lo hanno fatto.
Cari commercianti, siete cari soltanto a senso unico.
Che dio ve renda merito, con gli interessi.
Come dite? Dio non esiste?
Mhm, avevo il sospetto anch'io, ma, per la legge dei grandi numeri, a un certo punto finiranno anche i governi conniventi.
E qualcuno che ve ne renderà merito spunterà fuori.
Sono certo che avrete il buongusto di non chiedere la mia solidarietà allora, vero, cari commercianti?

venerdì 5 agosto 2011

Lament



Lament


Lament for my cock

Sore and crucified

I seek to know you

Aquiring soulful wisdom

You can open walls of mystery

Stripshow


How to aquire death in the morning show

TV death which the child absorbs

Deathwell mystery which makes me write

Slow train, the death of my cock gives life


Forgive the poor old people who gave us entry

Taught us god in the child's praye in the night


Guitar player

Ancient wise satyr

Sing your ode to my cock


Caress it's lament

Stiffen and guide us, we frozen

Lost cells

The knowledge of cancer

To speak to the heart

And give the great gift

Words Power Trance


this stable friend and the beast of his zoo

Wild haired chicks

Women flowering in their summit

Monsters of skin

Each color connects

to create the boat

which rocks the race

Could any hell be more horrible

than now

and real?


I pressed her thigh and death smiled

death, old friend

death and my cock are the world

I can forgive my injuries in the name of

Wisdom Luxury Romance


Sentence upon sentence

Words are the healing lament

For the death of my cock's spirit

Has no meaning in the soft fire

Words got me the wound and will get me well

I you believe it


All join now and lament the death of my cock

A tounge of knowledge in the feathered night

Boys get crazy in the head and suffer

I sacrifice my cock on the alter of silence



Ecco, se invece di citare il poeta, mi fossi limitato a dire "Me so' rotto 'r cazzo!" non sarebbe proprio stata la stessa cosa.
Ricordatevi di visitare il link, per apprezzare l'ineluttabilità nella voce di Jim.

http://www.youtube.com/watch?v=k_e3PVBx0N0

domenica 31 luglio 2011

Imperturbabile

Imperturbabile si presentò all'ufficio reclami, fece la sua fila, ascoltando le pseudoconversazioni che si scambiavano gli altri reclamanti, annuendo giudiziosamente, fra sè e sè, a volte con un accenno di assenso verso il reclamante di turno, senza mai aprire bocca. Imperturbabile attese, senza mostrare di spazientirsi, quando qualcuno dei suoi predecessori si dilungava in specifiche divaganti e multiplamente articolate, snocciolate solo per il gusto di prendersi il proprio spazio su quel palcoscenico dell'autocommiserazione. Imperturbabile fu testimone di due black-out, dovuti al maltempo o, più probabilmente, al sovraccarico della rete, con conseguente tempo di riavvio dei sistemi e inesorabile sequela di commenti sarcastici del pubblico reclamante. Senza aprire bocca. Imperturbabile sopportò le pause cappuccino, con conseguente sigaretta e inevitabile sosta al bagno - lunga, sa com'è, la colite - delle due impiegate che si alternavano allo sportello. Imperturbabile attese, pazientò,senza scomporsi mai e, soprattutto, senza aprire bocca. Poi arrivo il suo turno.Imperturbabile si avvicino al bancone con passi misurati, attese con pazienza che l'impiegata di turno - dicaaa - alzasse gli occhi dalle unghie che stava limandosi con nonchalance, incrociò il suo sguardo e la fissò con rimprovero per due minuti buoni. Senza aprire bocca. Imperturbabile non prestò attenzione alle isteriche e incalzanti domande della donna né agli scherni degli altri reclamanti in attesa. Continuò a fissarla con rimprovero, senza lasciarsi distrarre dalla crescente bagarre in cui la situazione stava degenerando. La fissò, senza aprire bocca, finché intorno non si fece il silenzio. L'impiegata aveva incominciato a piangere sommessamente, sopraffatta dal senso di impotenza e di inutilità della propria funzione, o più probabilmente della propria vita. Imperturbabile fece un cenno di assenso cone la testa, un po' per confermare un po' per ringraziare, e se ne andò. Fra lo smarrimento generale qualcuno applaudì.
Anche un muto può manifestare con decisione il proprio scontento, se ha la pazienza e le palle di fare un passo avanti. E' un primo passo, ma quanto fa bene. A tutti.

mercoledì 13 luglio 2011

scato-logica

Mi sembra quasi pleonastico fare questa osservazione, tanto è ovvia e banale.
Ma è necessario, talvolta, ribadire il lapalissiano, affiché non passi inosservato o, peggio ancora, ci si abitui ad esso, ancorché deleterio:

quanno ciai la faccia come'r culo, è facile che dalla bocca t'escano solo stronzate.

Se ti piace concimare il mondo, vai a vivere in campagna.

venerdì 17 giugno 2011

spari

quando i conti non tornano, c'è qualcosa che manca o qualcosa che avanza, e quello che manca ingombra, e quello che avanza striscia, serpeggiando inquietudine sottopelle. quando i conti non tornano a qualcuno resta meno in mano, e la bocca si storce e il fegato rode e le palle girano. quando i conti non tornano, a qualcuno va bene avere i suoi pari in mano, che evidentemente qualcosa l'aveva imbertato prima, altrimenti i conti tornavano. quando i conti non tornano, non c'è da meravigliarsi se son spari.

domenica 12 giugno 2011

Non è più il momento di compatirsi.


L'autocommiserazione è quel meccanismo mentale, il più delle volte inconscio, che ci impedisce di impegnarci pienamente nel momento presente per superare un ostacolo e proseguire sul nostro cammino. E' una tattica di rinvio, che ha origine nella paura del nuovo e quindi anche nella mancanza di fiducia in se stessi. Un gatto che si morde la coda, insomma. Ho preso in prestito questo concetto da Barefoot Doctor per ricordare che, da oggi in poi, ogni occasione per mandare un messaggio chiaro al nostro momento presente - tipo "vattene a casa, vecchio piazzista, imbottito de viagra" o anche meglio "fatti processare, puffone" - va colta prontamente, con entusiasmo e senza indugio. Mi ricordo chiaramente, ancora, di quella volta che ho deciso di fare con un po' di slancio un passo che mi spaventava sebbene fosse per il mio bene: la vita mi ha immediatamente steso davanti un bel tappeto rosso. Certo, anche un po' in salita. Ma se tutto fosse in discesa, finirebbe presto, e sempre più in basso, no?
Appena aprono i seggi vado a votare, sì, sì, sì, sì!

lunedì 6 giugno 2011

Imbottigliamolo


due brevissime righe per ricordare di celebrare il profumo dolce e appiccicoso dei tigli, che impiastricciano i marciapiedi con i loro fiori estinti ma carichi di polline colloso e gravido di estate. non accendere già l'aria condizionata, mentre attraversi a 20 all'ora i tratti urbani beneficiati da questa presenza; lascia due o tre dita di finestrino aperto, vai piano e spalmati l'interno delle narici con questa melassa floreale. un sorriso compiaciuto sul viso è consigliato. buona giornata.

domenica 5 giugno 2011

vedi che poi fa...'



http://static.repubblica.it/politica/passaparola.jpg

martedì 3 maggio 2011

Lo sai che i papaveri.


Non c'è niente che riesca a portare o a riportare sul mio viso un sorriso, anche se accennato, anche se solo interiore, quanto le spruzzate di papaveri, che accendono i campi di graminacee, gonfi di verde morbido, grazie alle piogge di aprile. Ogni volta che passo accanto ad una di queste macchioline, e, per fortuna, mi succede almeno due volte al giorno durante la settimana lavorativa, non riesco a non rimanere magnetizzato con lo sguardo sulla fuggevole impressione che ognuno di questi fiori è in grado di accendere, anche ad uno sguardo veloce. Come spiegavo a mio figlio, accompagnandolo a scuola, la loro bellezza è nella loro libertà. Non sono seminati né coltivati, nè vengono, per fortuna, raccolti per essere venduti. Nascono e vivono dove, ahimè, dovranno appassire dopo qualche settimana. Meravigliosamente incorniciati dall'argentea piumosità dei forasacchi, spesso accompagnati, o piantonati, dagli altissimi cardi. Niente di più, da dire, oggi.
Solo che vorrei dedicare un campo di papaveri a tutti i papà veri, come quello che ho avuto io.
E quello che ha avuto mia moglie, fino a qualche ora fa.

giovedì 21 aprile 2011

Io ce so nato, Roma, io t'ho scoperta...



Su questo colle, sono nato io, quasi cinquant'anni fa. Sul colle adiacente, separato solo dal Circo Massimo, è nata lei, dicono 2764 anni or sono. Non voglio dire niente, anche se ne avrei, stranamente. Solo augurare a questa città, che amo e che riesce ancora a commuovermi con la sua bellezza bistrattata,almeno altri 2000 anni di storia. No, non ho detto gloria.
Grazie Roma, ti dedico questa canzone.



martedì 19 aprile 2011

E' venuto a mancare.

Quanti giri della morte facciamo con le parole per evitare di dire la verità nel modo più semplice. Quante contraddizioni, quante assurdità. Se manca vuol dire che se ne è andato, non che è venuto, mi sembra palese. Oppure, "siamo addolorati per la scomparsa". E' passato da queste parti David Copperfield, per caso? I soliti ignoti? Nel caso di Mike Bongiorno è ammissibile, altre volte è semplicemente inesatto. Per non parlare degli eufemismi obsoleti come "la dipartita". Tutti sulla banchina a salutare il treno sventolando il fazzoletto. Nel mondo spirituale un po' freak si usa un'espressione altrettanto originale, ma che ha, paradossalmente, più contatto con la realtà: "ha lasciato il corpo". E' un'osservazione oggettiva, che considerà la consapevolezza del compianto, del defunto, del caro estinto. E le incombenze dei suoi parenti più prossimi.
Ecco, quando succederà a me, per favore, ditelo semplicemente; è schiattato, è crepato, ha tirato le cuoia, ha reso l'anima a dio, ha stirato le zampe, le trovo tutte espressioni molto colorite è divertenti. Ma mi accontento di un semplice "è morto, e finalmente se ne è accorto". Amen.

lunedì 4 aprile 2011

Di cosa parliamo quando parliamo di niente.

Ti chiedo "Come stai?", ma non mi frega.
Mi rispondi "Alla grande!", e sai che menti.
Le chiede i suoi programmi, sorridendo,
mentre ripassa a mente la lista della spesa.
Lei, se risponde, lo fa per cortesia,
rimanendo sul vago, un po' scocciata.
Noi ci facciamo a vicenda cari auguri
senza quasi più guardarci in faccia.
Voi vi ignorate, come si fa in ascensore,
ma, in pubblico, vi improvvisate grandi amici.
Loro si incontrano ogni anno, ormai una volta,
e si bombardano di pacche sulle spalle,
sghignazzando commenti sempre uguali.
C'è bisogno di chiacchiere inutili, a quanto pare,
fra noi che siamo la razza più evoluta.
Gli animali, al più, s'annusano il culo.

giovedì 10 marzo 2011

Portmanteau. Una valigia carica di doppi sensi.


Ringraziando Arcureo per la segnalazione di un duo di vignettisti danesi che si sono aggiunti al coro di sbeffeggiatori del nano - oh, qui ormai stamo a spara' su 'a Croce Rossa - sono giunto a riscoprire un vocabolo, portmanteau appunto, che definisce il risultato di una delle pratiche linguistiche più antiche (a parte il cunnilinguo, immagino), quella della composizione nominale. Per l'esattezza, portmanteau è, ironicamente, il vocabolo che usano gli inglesi, con un doppio passo di fantasia e francesismo, per definire un'aplologia. Mentre i francesi l'etichettano, come i pragmatici tedeschi, "parola valigia" (rispettivamente "mot-valise" e "Kofferwort"). Noialtri, popolo di emigranti, evidentemente rispettosi delle valige, abbiamo ritenuto di non profanarle con abbinamenti astrusi e rimanendo fedeli al nostro spirito prosaico e gaudente l'abbiamo definita "parola macedonia". Ora, dopo i ringraziamenti di rito a Wikipedia - altro portmanteau di rilevanza globale - do fine al noioso pistolotto e mi diletto in alcuni portmanteau estemporanei e spero inediti,ma anche no.

PORCONNA - Non è un semplice refuso nell'indicare una donna dei prosaici appetiti sessuali. E' un'eufemistica crasi di una blasfema apostrofe dedicata ad una vergine.

STROCIO - E' un termine derogatorio e omofobo, riservato ad una categoria di professionisti accomunati dalla passione per il congregazionismo, non necessariamente sessuale.

FIGURDA - Contrariamente alla prima impressione, non è un complimento rivolto all'avvenenza di una donna del Kurdistan. E'la sintesi di quello che può accadere se, ingannati dal burqa, facciamo la corte alla nonna della suddetta.

VAFFAZZO - E'uno dei portmanteau con il più alto indice di contrazione, giacché riassume, in sole 8 lettere, un paio di insulti che stanno bene insieme ma che per esteso comprendono 4 parole, 1 virgola e 1 punto esclamativo.

SPIULO - Termine dagli echi ornitologici, definisce un esemplare diffuso nelle fronde di molti uffici. E' una specie dedita a deprecabili attività collaterali al lavoro ma sicuramente propedeutiche alla carriera.

PARAGLIONE - No, non è il mispelling di uno spettacolare scoglio panoramico. E' la triste condizione di una specie molto diffusa in Italia, che ostenta grande sagacia egoistica mentre espleta recidivamente il ruolo di utile idiota di qualcun altro. Uno, in particolare.

mercoledì 9 marzo 2011

Mastica

è solo un senso di colpa, verso il bambino interiore di questo blog, che mi spinge a digitare delle parole a caso su questo spazio che assomiglia a una pagina. una parte di me - come si dice in certi consessi - avverte il suo dolore (quello del bambino interiore del blog, intendo), sente letteralmente in lontananza il suo pianto disperato, la sua terribile ferita dell'abbandono. un terrore nero, duro come un muro, fondo come una notte senza fondo, popolata di draghi assetati di sangue di bambino interiore di blog abbandonato. masticazzi. ho avuto poco tempo, razionalmente parlando, molto altro da fare e da pensare e da scrivere per avere anche nientedadire tra i piedi. ci sono anche altri motivi, che interessano nulla a chi legge anche se parecchio a chi scrive, che hanno a che fare con l'orgoglio e la virile abitudine di ostentare indifferenza quando non si presentasse l'occasione di ripagare con la stessa, se non più sonante, moneta. masticazzi, di nuovo, come volevasi dimostrare. e allora che perdo tempo a fare? per lasciare un segno, per me, per indicarmi un punto oltrepassato. finché non l'avessi espresso, questo punto sarebbe stato solo un galleggiante sbattuto fra i marosi - che parolona obsoleta e poco ergonomica - mentre ora, per me, questa è una boa. è sempre un galleggiante fra i marosi, ma ora rimane ancorato in una certa area e rappresenta un punto di riferimento, un promemoria che ha una sua latitudine precisa, quindi rintracciabile per analisi retrospettive, ancorché infruttuose. masticazzi, appunto.
sì, sono simpatico di mio, non uso una crema.

venerdì 11 febbraio 2011

Le Vent.

Fra cap’e collo,
su Ponte Mollo
bada, te s’arza la sottana
sta ariva’ la tramontana
Fra cap’e collo
Su Ponte Mollo
Tiettelo stretto er foularino
Non è mica er ponentino

Gente seria e fii de troja
Se la pijano cor vento
Che, se je vie’ vvoja, ‘ndo te coje pija e te spoja
A sti cari fii de troja
Te lo dico, che er sor vento,
de rompeje ‘r cazzo sta sicuro è ben contento.

Fra cap’e collo,
su Ponte Mollo
bada, te s’arza la sottana
sta ariva’ la tramontana
Fra cap’e collo
Su Ponte Mollo
Tiettelo stretto er foularino
Non è mica er ponentino

Certo, a vede quel ch’appare
Senza debit’ attenzioni
Pare che sto vento se la pija co’ chi je pare
Mentre lui va a sfruculiare
Con le giuste proporzioni
Solo e sempre a chi c’ha ‘r vizzio de rompe’ i cojoni

Fra cap’e collo,
su Ponte Mollo
bada, te s’arza la sottana
sta ariva’ la tramontana
Fra cap’e collo
Su Ponte Mollo
Tiettelo stretto er foularino
Non è mica er ponentino


La fortuna di un autore può essere indubbiamente misurata sulla quantità di traduzioni che la sua opera stimola. Al cuore non si comanda: quando, leggendo le sue parole, le senti risuonare dentro di te in profondità, generando emozioni, è umano sentire l’istinto di farle proprie. E’ un processo di riconoscimento che genera a sua volta riconoscenza. Un circolo virtuoso che coinvolge un numero potenzialmente esponenziale di coscienze. Ma questo non voleva essere un trattato, è solo una prolusione strumentale a giustificare un’altra traduzione.
E, tanto per non essere troppo originale, si tratta di una traduzione che si inserisce in una tradizione ben stabilita: non da lingua ufficiale a lingua ufficiale, ma a dialetto. Lascio volentieri alle schiere di esperti – che sono numerose come le traduzioni – l’elenco di tutte le lingue e dialetti in cui sono state rese, più o meno fedelmente, più o meno efficacemente, le canzoni di Georges Brassens. Già solo io, per parlare di qualcuno che conosco, che non lo faccio per mestiere, ne ho tradotte una mezza dozzina. E’ un esercizio ozioso? Forse, ma è piacevole come un cruciverba e tanto mi basta.
Qui c’è il testo originale, con interessanti note esplicative, trascritte da altri devoti ammiratori.
E questa è l’interpretazione originale del Maestro, poco più che un minuto di grazia e leggerezza i-n-i-m-i-t-a-b-i-l-e.



Ancora una volta, merci Tonton.

mercoledì 9 febbraio 2011

Sbocconcellando una pera acerba


Non ci sono doppi sensi in questo titolo. Non sto assaggiando le fruit défendu di qualche ninfetta (absit iniuria verbis), e questo pomeriggio non è quello di un fauno. Sto veramente turlupinando il calo degli zuccheri delle 17.00 con un’abate legnosa e asciutta. Chi me lo fa fare? Il girovita, per dirne una. L’abbrivio salutista che mi sono faticosamente autoimposto dopo il profluvio ipercalorico che ha preceduto e parzialmente seguito le vacanze di natale. Che per me sono state poco vacanze, anche se ero in ferie, ma questa è un’altra storia. E’ certamente impegnativo ristabilire una “dieta”sana ed equilibrata, quando ti sembra di camminare su un terreno incerto. Succede che le compensazioni appaiono inevitabili tributi al tremulo bambino dentro di me, e quelle alimentari sono le più economiche e disponibili. E, in fin dei conti, ancora le meno dannose, sempre con moderazione. Chiaro che una barretta di cioccolato o un sacchetto di croccantini di mais soffiato sono molto più intriganti – per il bambino, ma non solo – della suddetta pera che, per disgraziata scelta, non è nemmeno sugosa, sbrodolante, zuccherina come molte pere sanno essere. (Memorabile la descrizione che ne fa Meg Ryan in “City of Angels” ). E, naturalmente, un Campari Grapefruit o una lattina di Jack Daniels & Cola, danno molta più soddisfazione e ottundimento di una bella mezzalitrata di oligominerale. Ma, come dice il saggio, c’è un tempo per la semina e uno per il raccolto. Quindi, ora vado a vedere i monaci tibetani distruggere il mandala che hanno realizzato durante le ultime due settimane di lavoro certosino.
Così mi sento un po’ meno frustrato.

PS:ma i monaci tibetani lo sanno chi sono i certosini?

martedì 8 febbraio 2011

Nostalgia di San Paolo.


Saranno le repliche di Romanzo Criminale, sarà la mezza età, saranno gli spunti raccolti da altri coetanei su Facebook, sarà la mattina di nebbia, ma improvvisamente sono raggiunto da un’ondata di nostalgia di San Paolo. San Paolo Ostiense, il quartiere della mia adolescenza, di più, il quartiere delle mie radici. E la nostalgia, capricciosa, m’investe a intermittenze (senza scomodare Proust, che non l’ho letto), accozzagliandomi addosso una ridda di toponimi, episodi e personaggi, senza una storia definita, alla rinfusa. Non saprei da che parte cominciare, quindi mi affido alle sinapsi, senza revisione cronologica né logica. I palazzoni di Serafini, di fronte alla Regia Marina, er Ponticello (da valco San Paolo a Via Laurentina), Ambrio il fornaio, Peppe er vinaro (de Velletri), Arfonso er barbiere, Luisella (il femminiello), Faticoni (l’imbianchino che raccontava le barzellette che facevano ridere solo lui), Concetta e la signora Giorgia (le portiere del palazzo di mia nonna), l’ITIS Armellini e gli indiani metropolitani, il festival rock su Largo Beato Placido Riccardi all’alba degli anni ’70, l’encomiabile imperdibile inossidabile pizza dei Gemelli, il mercato coperto di via Efeso, via Filippi e gli amici del liceo, Largo Enea Bortolotti – Bortolotti tout court – il fulcro della comitiva delle feste pomicianti, il cortile del condominio di Via Filippo Eredia meteorologo, le interminabili partite a pallone sull’asfalto di Via Nistri – “la strada morta”, per noi e per le nostre mamme – davanti a quello che sarebbe stato il mio ginnasio qualche anno più tardi, lo stadio degli Eucalipti, largo Veratti e i mauvais garçons dai soprannomi più o meno eloquenti – Sciaro, Profumo, Er Milanese, Squarciagatti, Er Faina -, via di Valco San Paolo e la scuola media Edmondo de Amicis (non c’è più), l’Alfa Romeo (non c’è più), l’INA Case di via Corinto e dintorni, il malfamato eppure così famigliare Bar dei Desideri (dal cognome dei proprietari) dove all’uscita del liceo ci fermavamo a comprare un Dalek per 100 lire, via Pinchèrle (come la si chiamava, anche dopo che qualcuno aveva scoperto che l’accento era sulla ì) e le palazzine della FATA, delle Poste e delle Poste nove (nuove, allora), le baracche di Vicolo Savini, la vasca navale, l’OMI, il Cineetivvù, l’XI liceo scientifico– er Keplèro o più semplicemente l’Undicesimo, il Nautico – la scuola dei fasci, il Socrate (succursale) il mio liceo, ponte Marconi che attraversavo nei pomeriggi assolati strizzando gli occhi come Clint Eastwood, il Cinodromo, il centro San Tarcisio e quei giardinetti piccoli e nascosti dove spesso mi rintanavo quando facevo sega a scuola, l’oratorio di San Paolo, il cinemino dei preti dove ho visto 7 volte “Per un pugno di dollari”e poi “Tutti insieme appassionatamente” e decine di Franco e Ciccio, il cinema Madison a via Chiabrera (dove c’era uno dei bar frequentati dalla banda della Magliana) dove ho visto “Il Padrino” e “Jesus Christ Superstar”, il “pidocchietto” Tirreno (terza visione) a via Pellegrino Matteucci dove ho visto “Serafino” e “Er Più”, inspiegabili irruzioni del milanopugliese Celentano nel vernacolare romanesco e burino, la metro, meravigliosa porta per l'emancipazione dal quartiere verso le mete più eccitanti : il centro di Roma da una parte, l’Eur e il mare dall’altra, il 23, l’autobus dal percorso monstre – via Pincherle/Piazzale Clodio – all’epoca quasi un diametro della Roma conosciuta, il 97 che prendevo già da solo a 9 anni (sic) per andare a farmi regolare l’apparecchio ortodontico all’Isola Tiberina, oppure per andare a vedere gli allenamenti da’a ROMA al Tre Fontane, il 55 che mia prozia e mia madre chiamavano ancora la ELLE e che divenne poi il 170 e che allora arrivava da San Paolo a piazzale delle Muse su ai Parioli, il chiosco di cocomeri a Valco San Paolo, che esponeva un cartello con una poesia/slogan che ancora ricordo a memoria dopo parecchi decenni:

“Favorite er cocommero
ch’è ‘n frutto prelibbato,
rosso, granito, ar zucchero
un vero cioccolato
la fetta supertonica
fresca che te conzola
solo pe’ daje ‘n mozzico
ce vo’ la bavarola”.

Forse qualcosa affiorerà più tardi, ma su questo piccolo mondo antico in cui i cocomeri erano solo tondi e verde scuro, chiudo il capitolo. Con un sorriso grato, senza malinconia.

venerdì 4 febbraio 2011

Ipernoia® & Convolvolo®

"...Che ci posso fare? Mi piace perdere tempo. Mi piace traccheggiare, indugiare, rimandare, procrastinare, cercare notizie inutili, controllare la posta ogni due per tre, posticipare il momento in cui impegnarmi per fare una qualsiasi cosa, anche se potrei metterci qualche minuto e togliermi il pensiero, invece che rimproverarmi e rinfacciarmi ogni fine giornata l’indolenza oppiosa in cui mi convolvolo (sì lo so è il nome di un fiore, ma a me mi dà l’idea di un verbo procrastinante e pigro, tipo “i maiali si convolvolavano pigramente nel fango dell’aia…”) Perché fare qualcosa subito, quando puoi rimproverarti per giorni e settimane di averla rimandata, correndo il rischio di dover riparare costosamente alle scadenze saltate? Ignorare il resto, annullarsi nel covolvolio inutile, collezionare minuti di navigazione cieca, accumulare mega di ciarpame scaricato online, senza però avere la diligenza (siamo mica nel far west) senza avere la diligenza di catalogarla in categorie consultabili per un futuro utilizzo o ispirazione. No, il convolvolio ha da essere ozioso, altrimenti diventa ricerca, aggiornamento, cool hunting, prende insomma dei connotati che potrebbero farlo assomigliare ad un rilassato coté di ampliamento del bagaglio cognitivo, se non culturale. Assolutamente no, bisogna essere etici, il convolvolio va perseguito senza crearsi alibi ipocriti, l’unica molla convolvolare ufficialmente ammissibile è la noia. E la curiosità è il suo profeta. Immolatevi all’altare del convolvolio, lasciate che la noia vi trascini a convolvolare sulle strade meno battute con una curiosità disinibita e perniciosa, Chiedetevi perché, chessò, la cacca sia proprio marrone e non turchese e vagate con più o meno metodo – meglio meno, meglio lasciarsi guidare dall’intuito o dall’uzzolo del momento – alla ricerca spensierata di una o anche nessuna o magari centomila risposte, attendibili, risibili, incontrovertibili. Quanti modi ci sono per fare la carbonara nel mondo? Potrebbe fregare a qualcuno? No? Fa niente, convolvolare nel googlaggio sfrenato, aprendo sito dopo sito, blog dopo blog, affastellando ricette e ingredienti improbabili nello schedario frontale, quello in cui le nozioni transitano per poco tempo, e capricciosamente interrompere e saltabeccare convolvolissimamente appresso a qualche incongrua associazione di termini – non parliamo di idee, qua siamo ad un livello veramente basilare di funzionamento – trovandosi a canticchiare sottovoce le parole di una canzone perduta e richiamata alla memoria, chessò, da un nickname o saiddiocosa. Convolvola anche tu senza ritegno, forse già lo fai e non lo sai, ma non ti preoccupare, non mi interessa coinvolgerti a fare coming out. Il convolvolio è uno spazio individuale che non necessità di condivisione. Queste cose le lasciamo fare a chi si impegna o cerca di ampliare il suo network. O di broccolare tout court. Io convolvolo perché voglio stare per i cazzi miei, scusa il francese, e perdermi nelle mie fitte di ipernoia. A proposito, esiste questa parola? Sento l'irresistibile aroma del convolvolo, scusate un attimo..."

lunedì 31 gennaio 2011

Cera


Cera, una volta.
E poi olio di gomito, se non avevi la lucidatrice.
Così la mamma/moglie/donnadicasa perfetta curava il pavimento, lo consacrava all'altare della rispettabilità, già incorniciata in modelli pubblicitari, ancorché in bianco-e-nero. Emulsio, Liù, e Grey erano le marche di riferimento.
E poi cerano le pattine di feltro, perché non si dovevano lasciare striature sul corridoio, pena gli arresti domiciliari o il precursore del DASPO, più semplicemente l'interdizione dal cortile condominiale, sede di una polisportiva ufficiosa ma molto attiva, nonostante le frequenti reprimende, con un bouquet di attività che spaziava dal "pallone" (calcio era quello della Tv o delle figurine) al tennis (sull'onda dei successi di Panatta), dal ciclo-cross alle biglie, dall'atletica alleggerita (40 metri quasi piani su asfalto brecciolinato) alle varianti del nascondino (molto in voga il "Belfagor", un mix fra nascondino, acchiapparella, guardielladri, influenzato dall'omonimo terrificante sceneggiato televisivo - cera già la fiction, ma si chiamava così).
Ceravamo i tappi a corona delle bibite - in gergo le "birette", anche se non apprezzavamo ancora quella bevanda ambrata, anzi l'aborrivamo per il suo gusto amaro, troppo adulto, rispetto alle antidietetiche bibite gassate dell'epoca - li ceravamo ben bene per farli scivolare dritti, con una schicchera data con il dito medio caricato sul pollice, lungo i cordoli in travertino dei marciapiedi. E ceravamo anche gli interni dei gusci di noce, per farci le caravelle, con l'aggiunta di un paio di stuzzicadenti per fare gli alberi e un pezzo di carta velina che serviva, per l'appunto, per fare le vele. Non per agitare il livello testosteronico dei maschi della famiglia prima di cena.
Cera il telegiornale allora, uno solo, al massimo due, ma era letto da dei manichini - di cera appunto - che non tradivano alcuna emozione, qualsiasi fosse la notizia. Cera il conflitto israelo-palestinese già allora e ancora non s'è sciolto. Si vede che non era una buona cera, piuttosto paraffina. Cera il Vietnam anche e il napalm americano che provava a scioglierlo. Alla fine, però, sono stati gli Yankee a doversi squagliare.
Cerano i bambini del Biafra, povere creature, che erano strumentalmente sventolati dalle nostre mamme ogniqualvolta noi si osasse considerarsi sazi prima che il piatto fosse stato lucidato col pane. Cera una cultura alimentare postbellica e soprattutto postfamica che induceva al contrappasso trasversale - tanto hai patito la fame durante la guerra tanto più ingozzerai i tuoi figli durante il boom - ponendo le basi per il moderno riconoscimento dell'obesità come malattia socialmente ereditabile.
Cerano cose e non cerano altre.
Purtroppo e per fortuna, secondo i casi.
La nostalgia di mezz'età non cera ancora, naturalmente,
ma qualche volta cera quella dell'utero.

giovedì 13 gennaio 2011

Provincia di Elsinore.




"E’ la contorsione congenita di molte norme,
l’approssimazione della loro applicazione
da parte di numerosi ancorché impreparati burocrati
che spinge lo zoccolo duro degli italiani a rassegnarsi
e fare a modo proprio,
o è proprio il modo degli italiani a far sì
che molte norme siano geneticamente contorte ,
che innumerevoli burocrati siano impunemente impreparati
e quindi naturalmente inclini all’approssimazione in quasiasi applicazione?

Se sia più nobile subire nell’animo eccetera eccetera."

mercoledì 12 gennaio 2011

Il Colore dei Pensieri

I pensieri grigi calano come una tendina, leggera, trasparente, come una tarlatana o una zanzariera. E, piano piano, mentre fai altro, si prendono il tempo di diventare un muro.
I pensieri gialli sfrecciano, improvvisi, andando a illuminare angoli inattesi, come una torcia in cantina. E come una torcia in cantina, sorprendono sia te che il topo, che rosicchiava, ignorato, il legno degli scaffali.
I pensieri rossi si accendono, come uno zolfanello, strofinandosi. E ci mettono niente a provocare un’incendio. Oppure, eppure, riescono a pulsare a lungo, come una brace, sotto la cenere.
I pensieri blu sono silenziosi, parlano per immagini, senza commento. E riempiono il cuore la gola la mente e tutto il corpo, come un oceano riempie un acquario. Immobili.
I pensieri ocra puzzano. Danno fastidio a chi li pensa e si vergogna ma, non riesce o non vuole davvero abbandonarli. E danno fastidio a chi li subisce, perché nascono da un fegato invidioso e hanno l’alito cattivo, sempre.
I pensieri verdi, sono lineari e sinuosi, armonici e solidali, attivi e fattivi . C’è sempre la vita dentro ad un pensiero verde, senza bisogno di tante giustificazioni. E così sia.
I pensieri neri sono così ambivalenti che è impossibile parlarne. Perché sono per taluni un sollievo per altri una condanna. E in mezzo c’è un universo di sfumature. Nere.
I pensieri bianchi ce l’hanno solo i santi e non sono in questo consesso interessanti. Anzi, i pensieri bianchi sono assolutamente alieni al concetto di interesse, in un certo senso.
I pensieri viola, beh, come i pensieri rosa, i pensieri turchesi e quelli verde pavone – bellissimi, peraltro – sono versatili e volubili. Forse perché sono sempre di passaggio.
I pensieri arancio non esistono. E se esistono, sono perfetti così.

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