venerdì 18 gennaio 2019

“Anzianismo”* in pubblicità.


Ho letto e trovato molto interessante questo articolo di Alex Murrell, riguardo alla discriminazione anagrafica in pubblicità, apparso su Medium, il 21 dicembre dello scorso anno. Allego qui sotto la mia traduzione. L'articolo è lungo e con qualche ripetizione, ma pieno di dati illuminanti - e preoccupanti, secondo me. Ma io sono di parte. Molto di parte.

“Anzianismo”* in pubblicità.
(la discriminazione basata sull'età anagrafica) 

Alex Murrell Dec 21, 2018
L’industria pubblicitaria è gioventu-dipendente.
Siamo ossessionati e posseduti. La desideriamo nelle nostre agenzie e la bramiamo nelle nostre audience. Pensiamo che uno staff più giovane sia più creativo e che i consumatori più giovani abbiano più valore.
Ma questa non è altro che saggezza di seconda mano. Un dogma al quale siamo stati tutti indottrinati. Credenze spurie e miti speciosi; indiscussi, infondati e alla fine anche instabili.
Sottovalutando lo staff più anziano, sottovalutiamo l’expertise. Snobbando le audience più anziane snobbiamo delle opportunità.
Questo articolo vuole dimostrare che cambiare le nostre attitudini verso l’anzianismo (o discriminazione anagrafica, razzismo basato sull’età) non è soltanto una decisione morale ma commerciale. Una decisione che migliorerebbe la qualità del nostro lavoro. E che migliorerebbe anche la nostra reputazione.
Cominciamo da vicino casa.

L’anzianismo nelle nostre agenzie
Oggi sembra che un annuncio su due celebri le virtù dell’apertura, dell’uguaglianza e dell’inclusività. Le campagne si schierano contro il razzismo, bersagliano il sessismo e denunciano la discriminazione. E tuttavia, nei fatti, le agenzie che le producono non passano l’esame .
Non c’è un settore dove questa ipocrisia sia più marcata di quanto accada nella pubblicità, rispetto all’anzianità.
Un sondaggio condotto da Campaign e MEC ha scoperto alcuni risultati allarmanti: il 42% degli impiegati in pubblicità, marketing, media e PR, sono stati testimoni di “anzianismo” verso un collega. Anzi, il 32% ne ha fatto esperienza sulla propria pelle.
Ma, forse anche peggio, il 79% degli impiegati nel settore concordano sul fatto che si tratti di un comparto decisamente “anzianista”. Settanta. Nove. Per cento. Chiaramente l’attitudine “anzianista” del settore è compresa, radicata e consolidata. È un segreto di Pulcinella. Una pratica di pregiudizio culturalmente accettata. Improvvisamente, tutti gli annunci degni, pieni di carica, sembrano in qualche modo più superficiali.
Se lavori un un’agenzia, potresti non trovare insolito tutto ciò. Potresti pensare che il pregiudizio sia una norma che si rifletta anche su altri settori; un problema della società piuttosto che di un singolo comparto economico. Ma sbaglieresti.
Secondo un articolo dell’IPA (Institute of Practitioners in Advertising), scritto da Olivia Stubbing, Strategy Director di AMV BBDO, gli ultracinquantenni rappresentano solo il 6% della forza lavoro in advertising. Per avere una giusta prospettiva, considera che nel settore della finanza gli ultracinquantenni all’opera sono il 22%, in medicina il 28%, nel settore della scienza il 30% e nell’ambito legale il 35%.
Allora perché accade questo? Il Vice Chairman di Ogilvy, Rory Sutherland, offre non una, ma ben due risposte.

“Non posso fare a meno di avere l’impressione che i motivi per cui le persone sulla cinquantina lasciano l’ambiente pubblicitario (…) siano due:

1)    La pubblicità, non riuscendo ad allearsi con nessuna scienza o corpus di conoscenze consolidate, non considera l’esperienza un valore degno di premio. Non c’è nessuno schema mentale su cui puoi appoggiare una vita di esperienze accumulate. Questo significa che siamo abituati a dare valore alla gioventù e alla vitalità piuttosto che alla saggezza e alla maturità.
2)    Gli ingegneri, i dottori, gli avvocati, hanno il vantaggio di un “argumentum ab autoritate”.  A noi non va così di lusso. Ogni argomento, ogni punto di vista, deve essere difeso partendo da zero. Questo diventa sempre più frustrante, man mano che il tempo passa.”

In breve, il commercialista, l’avvocato e il dottore sono professioni radicate nell’expertise. E loro stessi comprendono che l’expertise è un prodotto dell’esperienza. Ma come loro danno valore alla competenza che viene con la pratica, il settore pubblicitario fa l’opposto. Noi veneriamo l’altare dell’innovazione. Della “disruption”. Dell’immaginazione.
Glorifichiamo la gioventù perché la (con)fondiamo con la creatività. Crediamo che i giovani siano sciolti e senza paura laddove i vecchi sono lenti e scettici. Vediamo i giovani che sfidano lo status quo e i vecchi che lo mantengono. I giovani che infrangono le barriere e i vecchi che le erigono.
Ma niente di questo è vero.
Margret Atwood aveva 79 anni quando ha lavorato come consulente creativo per l’adattamento del suo libro “The Handmaid’s Tale” (Il racconto dell’ancella). Guillermo del Toro ne aveva 53 quando ha vinto l’Oscar come miglior regista per “La forma dell’acqua”.
In un articolo intitolato The Age of Creativity, Bob Hoffman, autore di quattro best seller per Amazon, sostiene in modo convincente la tesi che la creatività fiorisca, piuttosto che appassire, con l’età. Il post merita una citazione estesa:

 “C’è solo un premio Nobel nel campo creativo, quello per la Letteratura. Lo scorso anno è andato a Kazuo Ishiguro che ha 64 anni.
I recenti premi Pulitzer sono stati interessanti. Il premio Pulitzer per la categoria Drama è andato a Lynn Nottage, 54 anni; quello per la Storia è andato a Heather Ann Thompson, 55 anni; il Pulitzer per la Poesia a Tyehimba Jess, 53 anni.
Intanto agli Academy Wards di quest’anno, tre dei quattro attori premiati erano over 50: Francis McDormand, 60; Gary Oldman, 59, ed Allison Janney, 58. Il quarto, Sam Rockwell, avrà 50 anni a novembre. L’Oscar per il Miglior Regista è andato a Guillermo del Toro, che ne ha 53.
Passiamo alla televisione.
L’Emmy per la miglior serie drammatica è andato a The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella). Il romanzo fu scritto da Margaret Atwood, che ha 79 anni ed è consulente creativo per la serie. Il premio per la miglior serie comica è andato a Veep, di cui è executive producer Julia Louis-Dreyfus, che ha 57 anni. E che fra l’altro ha anche vinto l’Emmy come migliore attrice. La miglior Limited Series è stata Big Little Lies, creata da David E Kelley, 62 anni. I premi per miglior attore e migliore attrice non protagonisti sono andati a John Lithgow e Ann Dowd, rispettivamente 73 e 62 anni.”

Il punto di Hoffman è chiaro: l’industria pubblicitaria tratta gli over 50 come creativamente esausti, eppure sono la fascia di età che domina nei premi creativi più desiderati al mondo. È evidente che la nostra mancanza di rispetto è malriposta. Sottovalutando gli over 50, rischiamo di lasciare sul tavolo una delle nostre più ricche fonti di creatività.
E non è soltanto la creatività ad essere a rischio.
Il rapporto McKinsey Diversity Matters ha esaminato i dati proprietari di 366 società operanti in borsa all’interno di una gamma di settori industriali e mercati.
La ricerca ha trovato che le società nel primo quartile per diversità razziali ed etniche hanno il 35% di possibilità in più di avere ritorni finanziari superiori alle medie del loro settore.
Il rapporto continua, affrontando la questione dell’età:

“Questo a sua volta suggerisce che altri tipi di diversità – per esempio, d’età, di orientamento sessuale e di esperienza (come una mentalità globale o una versatilità culturale) – possono comportare ulteriori vantaggi competitivi per le società che possono attrarre e trattenere tali diversi talenti.”

Perciò, una forza lavoro differenziata, che includa una gamma ampia di generazioni, ha la possibilità di essere più creativa e avere maggior successo finanziario.
Visto sotto questa luce, il fatto che la fascia over 50 sia così drammaticamente sotto-rappresentata nelle nostre agenzie appare commercialmente sconsiderato.
Ma la questione non si ferma qui.

L’anzianismo verso le nostre audience
Proprio come gli over 50 sono sotto-rappresentati nelle nostre agenzie, altrettanto accade per le nostre audience.
E questo accade nonostante sia la fascia di età che controlla la maggior porzione di ricchezza.
Secondo Simon Gwynn di Campaign, gli over 50 rappresentano un terzo della popolazione del Regno Unito, ma possiedono l’80% della ricchezza. Non solo questo gruppo più anziano possiede più denaro, ma non ha neppure paura di spenderlo. Nielsen ha affrontato questo tema in un recente rapporto:

“Mentre è ben accertato che i Baby Boomers hanno il più grosso gruzzolo da spendere, c’è il preconcetto a credere che le persone più vecchie spendano meno di quanto possiedono. Se poteva esser vero per le generazioni di consumatori anziani che hanno preceduto i Boomers, questo non succede assolutamente per questa generazione.”

Il livello di spesa degli over 50 è così alto, in realtà, che costituisce la maggioranza del valore in molte categorie. Campaign ha trovato che il 60% di tutte le auto che si vendono sono acquistate da loro. Lonely Planet afferma che gli over 50 contribuiscono al 58% di tutti i soldi spesi in viaggi e turismo. Barclay crede che siano responsabili per il 58% delle vendite nei comparti dell’ospitalità e del tempo libero. Kantar ha riscontrato che sono responsabili per il 50% degli acquisti in articoli di salute e bellezza, mentre un rapporto Nielsen conferma che il 49% degli acquisti di beni di largo consumo sono attribuibili a loro.
In parole povere, gli over 50 sono la generazione più preziosa nella storia del marketing.
Eppure sono ignorati da quasi tutta la pubblicità.
Si stima che solo il 5% dei dollari investiti in pubblicità siano indirizzati agli adulti nella fascia che va dai 35 al 64 anni di età. Immaginate quanto sarebbe piccola questa cifra se volessimo considerare solo gli over 50. Gli schermi TV, i canali social, i poster e gli annunci stampa di tutto il mondo sono pieni di ventenni splendidi e felici. Non c’è traccia di rughe, di lunghe ore vuote, o di floridi conti bancari.
Per tornare a Bob Hoffman:

“I responsabili di marketing, a quanto pare, preferirebbero assecondare infruttuosamente i gusti dei giovani piuttosto che fare i soldi veri vendendo cose ai vecchi. L’idea di persone sopra i 50 che guidano le proprie auto, bevono il proprio caffè, mangiano i propri hamburger e indossano le proprie sneakers, gli provoca così paura e imbarazzo che preferiscono ostinatamente ignorare e minimizzare il gruppo economico più prezioso nella storia del mondo.”

Di nuovo, però, questo non è un discorso che riguardi solo un settore economico. Non passa inosservato ai radar. È notato, riconosciuto e ampiamente lamentato dalla società in generale.
La compagnia di assicurazione dedicata agli over 50, SunLife, ha condotto un sondaggio su oltre 50.000 persone, per scoprire le loro percezioni riguardo l’industria pubblicitaria. Tre quarti di loro pensavano di non essere mai rappresentati negli annunci più diffusi. Mai. Nada. Nemmeno una volta.
Ma, di nuovo, va anche peggio.
Nelle poche occasioni in cui il loro gruppo di età è rappresentato, quello che viene ritratto è uno stanco stereotipo. Secondo un sondaggio di YouGov, su un campione di 1.000 persone over 50, il 79% non riteneva di essere ritratto con precisione.  
La ragione con cui comunemente la gente del marketing e dell’advertising giustifica questa preferenza verso i giovani è che le generazioni più vecchie sono bloccate nei loro modi. Che sono estremamente fedeli ai brand che hanno scelto. E che ogni tentativo di convertirle sarebbe difficile, se non impossibile.
Anche questo, di nuovo, è privo di fondamento. Ritornando allo studio della Nielsen:

“I livelli di fedeltà alla marca espressi dai Boomers sono gli stessi di altri gruppi di età. [Il risultato netto è che] se i Boomers mostrano la stessa relazione con la marca e la stessa ricettività al marketing che mostrano gli altri consumatori, allora dovrebbero essere approcciati nello stesso modo.”

Perciò, gli over 50 sono una delle più ampie, più facoltose e meno servite audience disponibili sul mercato.
Da questo punto di vista, il fatto che gli over 50 siano così drammaticamente sotto-rappresentati nel nostro advertising appare essere una dimostrazione di sconsideratezza commerciale.

Conclusione
Ecco qua. Il nostro settore è composto di personale senza esperienza che ignora sistematicamente l’audience più profittevole del mondo. Non c’è da meravigliarsi se la nostra influenza nella stanza dei bottoni stia svanendo.
Per fortuna c’è spazio per sperare.
In primo luogo, Ogilvy ha creato un programma di stage di sei mesi, chiamato The Pipe, che non ha limiti d’età.
In secondo, WPP ha visto la proporzione dei lavoratori con età tra i 20 e i 29 anni diminuire dal 38% del 2011 a meno del 35% nel 2016, suggerendo un livellamento della distribuzione della forza lavoro della società lungo varie fasce d’età.
È un buon inizio. Ma è solo un inizio.
Sì, abbiamo bisogno di menti giovani e provocatorie, ma abbiamo anche bisogno di consulenti esperti, con esperienza. Abbiamo bisogno di brand che si rivolgono a consumatori giovani e vibranti, ma abbiamo anche bisogno di marche che offrano prodotti e servizi ai consumatori più anziani, e ricchi. Alla fine, abbiamo bisogno di equilibrio. Equilibrio nelle nostre agenzie, equilibrio nelle nostre target audience e, più di tutto, equilibrio nel nostro approccio.
Solo allora riguadagneremo il rispetto dei soci anziani.
Una cosa è chiara, l’advertising deve diventare adulto.

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