mercoledì 9 febbraio 2011

Sbocconcellando una pera acerba


Non ci sono doppi sensi in questo titolo. Non sto assaggiando le fruit défendu di qualche ninfetta (absit iniuria verbis), e questo pomeriggio non è quello di un fauno. Sto veramente turlupinando il calo degli zuccheri delle 17.00 con un’abate legnosa e asciutta. Chi me lo fa fare? Il girovita, per dirne una. L’abbrivio salutista che mi sono faticosamente autoimposto dopo il profluvio ipercalorico che ha preceduto e parzialmente seguito le vacanze di natale. Che per me sono state poco vacanze, anche se ero in ferie, ma questa è un’altra storia. E’ certamente impegnativo ristabilire una “dieta”sana ed equilibrata, quando ti sembra di camminare su un terreno incerto. Succede che le compensazioni appaiono inevitabili tributi al tremulo bambino dentro di me, e quelle alimentari sono le più economiche e disponibili. E, in fin dei conti, ancora le meno dannose, sempre con moderazione. Chiaro che una barretta di cioccolato o un sacchetto di croccantini di mais soffiato sono molto più intriganti – per il bambino, ma non solo – della suddetta pera che, per disgraziata scelta, non è nemmeno sugosa, sbrodolante, zuccherina come molte pere sanno essere. (Memorabile la descrizione che ne fa Meg Ryan in “City of Angels” ). E, naturalmente, un Campari Grapefruit o una lattina di Jack Daniels & Cola, danno molta più soddisfazione e ottundimento di una bella mezzalitrata di oligominerale. Ma, come dice il saggio, c’è un tempo per la semina e uno per il raccolto. Quindi, ora vado a vedere i monaci tibetani distruggere il mandala che hanno realizzato durante le ultime due settimane di lavoro certosino.
Così mi sento un po’ meno frustrato.

PS:ma i monaci tibetani lo sanno chi sono i certosini?

martedì 8 febbraio 2011

Nostalgia di San Paolo.


Saranno le repliche di Romanzo Criminale, sarà la mezza età, saranno gli spunti raccolti da altri coetanei su Facebook, sarà la mattina di nebbia, ma improvvisamente sono raggiunto da un’ondata di nostalgia di San Paolo. San Paolo Ostiense, il quartiere della mia adolescenza, di più, il quartiere delle mie radici. E la nostalgia, capricciosa, m’investe a intermittenze (senza scomodare Proust, che non l’ho letto), accozzagliandomi addosso una ridda di toponimi, episodi e personaggi, senza una storia definita, alla rinfusa. Non saprei da che parte cominciare, quindi mi affido alle sinapsi, senza revisione cronologica né logica. I palazzoni di Serafini, di fronte alla Regia Marina, er Ponticello (da valco San Paolo a Via Laurentina), Ambrio il fornaio, Peppe er vinaro (de Velletri), Arfonso er barbiere, Luisella (il femminiello), Faticoni (l’imbianchino che raccontava le barzellette che facevano ridere solo lui), Concetta e la signora Giorgia (le portiere del palazzo di mia nonna), l’ITIS Armellini e gli indiani metropolitani, il festival rock su Largo Beato Placido Riccardi all’alba degli anni ’70, l’encomiabile imperdibile inossidabile pizza dei Gemelli, il mercato coperto di via Efeso, via Filippi e gli amici del liceo, Largo Enea Bortolotti – Bortolotti tout court – il fulcro della comitiva delle feste pomicianti, il cortile del condominio di Via Filippo Eredia meteorologo, le interminabili partite a pallone sull’asfalto di Via Nistri – “la strada morta”, per noi e per le nostre mamme – davanti a quello che sarebbe stato il mio ginnasio qualche anno più tardi, lo stadio degli Eucalipti, largo Veratti e i mauvais garçons dai soprannomi più o meno eloquenti – Sciaro, Profumo, Er Milanese, Squarciagatti, Er Faina -, via di Valco San Paolo e la scuola media Edmondo de Amicis (non c’è più), l’Alfa Romeo (non c’è più), l’INA Case di via Corinto e dintorni, il malfamato eppure così famigliare Bar dei Desideri (dal cognome dei proprietari) dove all’uscita del liceo ci fermavamo a comprare un Dalek per 100 lire, via Pinchèrle (come la si chiamava, anche dopo che qualcuno aveva scoperto che l’accento era sulla ì) e le palazzine della FATA, delle Poste e delle Poste nove (nuove, allora), le baracche di Vicolo Savini, la vasca navale, l’OMI, il Cineetivvù, l’XI liceo scientifico– er Keplèro o più semplicemente l’Undicesimo, il Nautico – la scuola dei fasci, il Socrate (succursale) il mio liceo, ponte Marconi che attraversavo nei pomeriggi assolati strizzando gli occhi come Clint Eastwood, il Cinodromo, il centro San Tarcisio e quei giardinetti piccoli e nascosti dove spesso mi rintanavo quando facevo sega a scuola, l’oratorio di San Paolo, il cinemino dei preti dove ho visto 7 volte “Per un pugno di dollari”e poi “Tutti insieme appassionatamente” e decine di Franco e Ciccio, il cinema Madison a via Chiabrera (dove c’era uno dei bar frequentati dalla banda della Magliana) dove ho visto “Il Padrino” e “Jesus Christ Superstar”, il “pidocchietto” Tirreno (terza visione) a via Pellegrino Matteucci dove ho visto “Serafino” e “Er Più”, inspiegabili irruzioni del milanopugliese Celentano nel vernacolare romanesco e burino, la metro, meravigliosa porta per l'emancipazione dal quartiere verso le mete più eccitanti : il centro di Roma da una parte, l’Eur e il mare dall’altra, il 23, l’autobus dal percorso monstre – via Pincherle/Piazzale Clodio – all’epoca quasi un diametro della Roma conosciuta, il 97 che prendevo già da solo a 9 anni (sic) per andare a farmi regolare l’apparecchio ortodontico all’Isola Tiberina, oppure per andare a vedere gli allenamenti da’a ROMA al Tre Fontane, il 55 che mia prozia e mia madre chiamavano ancora la ELLE e che divenne poi il 170 e che allora arrivava da San Paolo a piazzale delle Muse su ai Parioli, il chiosco di cocomeri a Valco San Paolo, che esponeva un cartello con una poesia/slogan che ancora ricordo a memoria dopo parecchi decenni:

“Favorite er cocommero
ch’è ‘n frutto prelibbato,
rosso, granito, ar zucchero
un vero cioccolato
la fetta supertonica
fresca che te conzola
solo pe’ daje ‘n mozzico
ce vo’ la bavarola”.

Forse qualcosa affiorerà più tardi, ma su questo piccolo mondo antico in cui i cocomeri erano solo tondi e verde scuro, chiudo il capitolo. Con un sorriso grato, senza malinconia.

venerdì 4 febbraio 2011

Ipernoia® & Convolvolo®

"...Che ci posso fare? Mi piace perdere tempo. Mi piace traccheggiare, indugiare, rimandare, procrastinare, cercare notizie inutili, controllare la posta ogni due per tre, posticipare il momento in cui impegnarmi per fare una qualsiasi cosa, anche se potrei metterci qualche minuto e togliermi il pensiero, invece che rimproverarmi e rinfacciarmi ogni fine giornata l’indolenza oppiosa in cui mi convolvolo (sì lo so è il nome di un fiore, ma a me mi dà l’idea di un verbo procrastinante e pigro, tipo “i maiali si convolvolavano pigramente nel fango dell’aia…”) Perché fare qualcosa subito, quando puoi rimproverarti per giorni e settimane di averla rimandata, correndo il rischio di dover riparare costosamente alle scadenze saltate? Ignorare il resto, annullarsi nel covolvolio inutile, collezionare minuti di navigazione cieca, accumulare mega di ciarpame scaricato online, senza però avere la diligenza (siamo mica nel far west) senza avere la diligenza di catalogarla in categorie consultabili per un futuro utilizzo o ispirazione. No, il convolvolio ha da essere ozioso, altrimenti diventa ricerca, aggiornamento, cool hunting, prende insomma dei connotati che potrebbero farlo assomigliare ad un rilassato coté di ampliamento del bagaglio cognitivo, se non culturale. Assolutamente no, bisogna essere etici, il convolvolio va perseguito senza crearsi alibi ipocriti, l’unica molla convolvolare ufficialmente ammissibile è la noia. E la curiosità è il suo profeta. Immolatevi all’altare del convolvolio, lasciate che la noia vi trascini a convolvolare sulle strade meno battute con una curiosità disinibita e perniciosa, Chiedetevi perché, chessò, la cacca sia proprio marrone e non turchese e vagate con più o meno metodo – meglio meno, meglio lasciarsi guidare dall’intuito o dall’uzzolo del momento – alla ricerca spensierata di una o anche nessuna o magari centomila risposte, attendibili, risibili, incontrovertibili. Quanti modi ci sono per fare la carbonara nel mondo? Potrebbe fregare a qualcuno? No? Fa niente, convolvolare nel googlaggio sfrenato, aprendo sito dopo sito, blog dopo blog, affastellando ricette e ingredienti improbabili nello schedario frontale, quello in cui le nozioni transitano per poco tempo, e capricciosamente interrompere e saltabeccare convolvolissimamente appresso a qualche incongrua associazione di termini – non parliamo di idee, qua siamo ad un livello veramente basilare di funzionamento – trovandosi a canticchiare sottovoce le parole di una canzone perduta e richiamata alla memoria, chessò, da un nickname o saiddiocosa. Convolvola anche tu senza ritegno, forse già lo fai e non lo sai, ma non ti preoccupare, non mi interessa coinvolgerti a fare coming out. Il convolvolio è uno spazio individuale che non necessità di condivisione. Queste cose le lasciamo fare a chi si impegna o cerca di ampliare il suo network. O di broccolare tout court. Io convolvolo perché voglio stare per i cazzi miei, scusa il francese, e perdermi nelle mie fitte di ipernoia. A proposito, esiste questa parola? Sento l'irresistibile aroma del convolvolo, scusate un attimo..."

lunedì 31 gennaio 2011

Cera


Cera, una volta.
E poi olio di gomito, se non avevi la lucidatrice.
Così la mamma/moglie/donnadicasa perfetta curava il pavimento, lo consacrava all'altare della rispettabilità, già incorniciata in modelli pubblicitari, ancorché in bianco-e-nero. Emulsio, Liù, e Grey erano le marche di riferimento.
E poi cerano le pattine di feltro, perché non si dovevano lasciare striature sul corridoio, pena gli arresti domiciliari o il precursore del DASPO, più semplicemente l'interdizione dal cortile condominiale, sede di una polisportiva ufficiosa ma molto attiva, nonostante le frequenti reprimende, con un bouquet di attività che spaziava dal "pallone" (calcio era quello della Tv o delle figurine) al tennis (sull'onda dei successi di Panatta), dal ciclo-cross alle biglie, dall'atletica alleggerita (40 metri quasi piani su asfalto brecciolinato) alle varianti del nascondino (molto in voga il "Belfagor", un mix fra nascondino, acchiapparella, guardielladri, influenzato dall'omonimo terrificante sceneggiato televisivo - cera già la fiction, ma si chiamava così).
Ceravamo i tappi a corona delle bibite - in gergo le "birette", anche se non apprezzavamo ancora quella bevanda ambrata, anzi l'aborrivamo per il suo gusto amaro, troppo adulto, rispetto alle antidietetiche bibite gassate dell'epoca - li ceravamo ben bene per farli scivolare dritti, con una schicchera data con il dito medio caricato sul pollice, lungo i cordoli in travertino dei marciapiedi. E ceravamo anche gli interni dei gusci di noce, per farci le caravelle, con l'aggiunta di un paio di stuzzicadenti per fare gli alberi e un pezzo di carta velina che serviva, per l'appunto, per fare le vele. Non per agitare il livello testosteronico dei maschi della famiglia prima di cena.
Cera il telegiornale allora, uno solo, al massimo due, ma era letto da dei manichini - di cera appunto - che non tradivano alcuna emozione, qualsiasi fosse la notizia. Cera il conflitto israelo-palestinese già allora e ancora non s'è sciolto. Si vede che non era una buona cera, piuttosto paraffina. Cera il Vietnam anche e il napalm americano che provava a scioglierlo. Alla fine, però, sono stati gli Yankee a doversi squagliare.
Cerano i bambini del Biafra, povere creature, che erano strumentalmente sventolati dalle nostre mamme ogniqualvolta noi si osasse considerarsi sazi prima che il piatto fosse stato lucidato col pane. Cera una cultura alimentare postbellica e soprattutto postfamica che induceva al contrappasso trasversale - tanto hai patito la fame durante la guerra tanto più ingozzerai i tuoi figli durante il boom - ponendo le basi per il moderno riconoscimento dell'obesità come malattia socialmente ereditabile.
Cerano cose e non cerano altre.
Purtroppo e per fortuna, secondo i casi.
La nostalgia di mezz'età non cera ancora, naturalmente,
ma qualche volta cera quella dell'utero.

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