Ho
letto e trovato molto interessante questo articolo di Alex Murrell,
riguardo alla discriminazione anagrafica in pubblicità, apparso su
Medium, il 21 dicembre dello scorso anno. Allego qui sotto la mia
traduzione. L'articolo è lungo e con qualche ripetizione, ma pieno di
dati illuminanti - e preoccupanti, secondo me. Ma io sono di parte.
Molto di parte.
“Anzianismo”* in pubblicità.
(la discriminazione basata sull'età anagrafica)
Alex Murrell Dec 21, 2018
L’industria
pubblicitaria è gioventu-dipendente.
Siamo
ossessionati e posseduti. La desideriamo nelle nostre agenzie e la bramiamo
nelle nostre audience. Pensiamo che uno staff più giovane sia più creativo e
che i consumatori più giovani abbiano più valore.
Ma questa non è
altro che saggezza di seconda mano. Un dogma al quale siamo stati tutti
indottrinati. Credenze spurie e miti speciosi; indiscussi, infondati e alla
fine anche instabili.
Sottovalutando lo
staff più anziano, sottovalutiamo l’expertise. Snobbando le audience più
anziane snobbiamo delle opportunità.
Questo articolo
vuole dimostrare che cambiare le nostre attitudini verso l’anzianismo (o discriminazione anagrafica, razzismo basato sull’età)
non è soltanto una decisione morale ma commerciale. Una decisione che
migliorerebbe la qualità del nostro lavoro. E che migliorerebbe anche la nostra
reputazione.
Cominciamo da
vicino casa.
L’anzianismo nelle nostre agenzie
Oggi sembra che un annuncio su due celebri le virtù dell’apertura,
dell’uguaglianza e dell’inclusività. Le campagne si schierano contro il
razzismo, bersagliano il sessismo e denunciano la discriminazione. E tuttavia,
nei fatti, le agenzie che le producono non passano l’esame .
Non c’è un
settore dove questa ipocrisia sia più marcata di quanto accada nella
pubblicità, rispetto all’anzianità.
Un sondaggio condotto da
Campaign e MEC ha scoperto alcuni risultati allarmanti: il 42% degli impiegati
in pubblicità, marketing, media e PR, sono stati testimoni di “anzianismo” verso un collega. Anzi, il
32% ne ha fatto esperienza sulla propria pelle.
Ma, forse anche
peggio, il 79% degli impiegati nel settore concordano sul fatto che si tratti
di un comparto decisamente “anzianista”.
Settanta. Nove. Per cento. Chiaramente l’attitudine “anzianista” del settore è compresa, radicata e consolidata. È un
segreto di Pulcinella. Una pratica di pregiudizio culturalmente accettata.
Improvvisamente, tutti gli annunci degni, pieni di carica, sembrano in qualche
modo più superficiali.
Se lavori un
un’agenzia, potresti non trovare insolito tutto ciò. Potresti pensare che il
pregiudizio sia una norma che si rifletta anche su altri settori; un problema
della società piuttosto che di un singolo comparto economico. Ma sbaglieresti.
Secondo un articolo
dell’IPA (Institute of Practitioners in Advertising), scritto
da Olivia Stubbing, Strategy Director di AMV BBDO, gli ultracinquantenni
rappresentano solo il 6% della forza lavoro in advertising. Per avere una
giusta prospettiva, considera che nel settore della finanza gli
ultracinquantenni all’opera sono il 22%, in medicina il 28%, nel settore della
scienza il 30% e nell’ambito legale il 35%.
Allora perché
accade questo? Il Vice Chairman di Ogilvy, Rory Sutherland, offre non una, ma ben due risposte.
“Non posso fare a meno di avere l’impressione che i motivi
per cui le persone sulla cinquantina lasciano l’ambiente pubblicitario (…)
siano due:
1)
La pubblicità, non riuscendo ad allearsi con nessuna
scienza o corpus di conoscenze consolidate, non considera l’esperienza un
valore degno di premio. Non c’è nessuno schema mentale su cui puoi appoggiare
una vita di esperienze accumulate. Questo significa che siamo abituati a dare
valore alla gioventù e alla vitalità piuttosto che alla saggezza e alla
maturità.
2)
Gli ingegneri, i dottori, gli avvocati, hanno il
vantaggio di un “argumentum ab autoritate”. A noi non va così di lusso. Ogni argomento,
ogni punto di vista, deve essere difeso partendo da zero. Questo diventa sempre
più frustrante, man mano che il tempo passa.”
In breve, il commercialista,
l’avvocato e il dottore sono professioni radicate nell’expertise. E loro stessi
comprendono che l’expertise è un prodotto dell’esperienza. Ma come loro danno
valore alla competenza che viene con la pratica, il settore pubblicitario fa
l’opposto. Noi veneriamo l’altare dell’innovazione. Della “disruption”. Dell’immaginazione.
Glorifichiamo la
gioventù perché la (con)fondiamo con la creatività. Crediamo che i giovani
siano sciolti e senza paura laddove i vecchi sono lenti e scettici. Vediamo i
giovani che sfidano lo status quo e i vecchi che lo mantengono. I giovani che
infrangono le barriere e i vecchi che le erigono.
Ma niente di
questo è vero.
Margret Atwood aveva 79 anni quando
ha lavorato come consulente creativo per l’adattamento del suo libro “The Handmaid’s Tale” (Il racconto dell’ancella). Guillermo del Toro ne
aveva 53 quando ha vinto l’Oscar come miglior regista per “La forma dell’acqua”.
In un articolo
intitolato The Age of
Creativity, Bob Hoffman,
autore di quattro best seller per Amazon, sostiene in modo convincente la tesi
che la creatività fiorisca, piuttosto che appassire, con l’età. Il post merita
una citazione estesa:
“C’è solo un
premio Nobel nel campo creativo, quello per la Letteratura. Lo scorso anno è
andato a Kazuo Ishiguro che ha 64 anni.
I recenti premi Pulitzer sono stati interessanti. Il
premio Pulitzer per la categoria Drama è andato a Lynn Nottage, 54 anni; quello
per la Storia è andato a Heather Ann Thompson, 55 anni; il Pulitzer per la
Poesia a Tyehimba Jess, 53 anni.
Intanto agli Academy Wards di quest’anno, tre dei quattro
attori premiati erano over 50: Francis McDormand, 60; Gary
Oldman, 59, ed Allison Janney, 58. Il quarto, Sam Rockwell, avrà 50
anni a novembre. L’Oscar per il Miglior Regista è andato a Guillermo del Toro,
che ne ha 53.
Passiamo alla televisione.
L’Emmy per la miglior serie drammatica è andato a The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella). Il romanzo fu scritto da
Margaret Atwood, che ha 79 anni ed è consulente creativo per la serie. Il
premio per la miglior serie comica è andato a Veep,
di cui è executive producer Julia Louis-Dreyfus, che ha 57
anni. E che fra l’altro ha anche vinto l’Emmy come migliore attrice. La miglior
Limited Series è stata Big Little
Lies, creata da David E Kelley, 62 anni. I premi per
miglior attore e migliore attrice non protagonisti sono andati a John Lithgow e
Ann Dowd, rispettivamente 73 e 62 anni.”
Il punto di
Hoffman è chiaro: l’industria pubblicitaria tratta gli over 50 come
creativamente esausti, eppure sono la fascia di età che domina nei premi creativi
più desiderati al mondo. È evidente che la nostra mancanza di rispetto è
malriposta. Sottovalutando gli over 50, rischiamo di lasciare sul tavolo una
delle nostre più ricche fonti di creatività.
E non è soltanto
la creatività ad essere a rischio.
Il rapporto
McKinsey Diversity Matters ha esaminato i dati proprietari di 366
società operanti in borsa all’interno di una gamma di settori industriali e
mercati.
La ricerca ha
trovato che le società nel primo quartile per diversità razziali ed etniche
hanno il 35% di possibilità in più di avere ritorni finanziari superiori alle
medie del loro settore.
Il rapporto
continua, affrontando la questione dell’età:
“Questo a sua volta suggerisce che altri tipi di
diversità – per esempio, d’età, di orientamento sessuale e di esperienza (come
una mentalità globale o una versatilità culturale) – possono comportare
ulteriori vantaggi competitivi per le società che possono attrarre e trattenere
tali diversi talenti.”
Perciò, una forza
lavoro differenziata, che includa una gamma ampia di generazioni, ha la
possibilità di essere più creativa e avere maggior successo finanziario.
Visto sotto
questa luce, il fatto che la fascia over 50 sia così drammaticamente sotto-rappresentata
nelle nostre agenzie appare commercialmente sconsiderato.
Ma la questione non
si ferma qui.
L’anzianismo verso le nostre audience
Proprio come gli
over 50 sono sotto-rappresentati nelle nostre agenzie, altrettanto accade per
le nostre audience.
E questo accade
nonostante sia la fascia di età che controlla la maggior porzione di ricchezza.
Secondo Simon
Gwynn di Campaign,
gli over 50 rappresentano un terzo della popolazione del Regno Unito, ma
possiedono l’80% della ricchezza. Non solo questo gruppo più anziano possiede
più denaro, ma non ha neppure paura di spenderlo. Nielsen
ha affrontato questo tema in un recente rapporto:
“Mentre è ben accertato che i Baby Boomers hanno il
più grosso gruzzolo da spendere, c’è il preconcetto a credere che le persone
più vecchie spendano meno di quanto possiedono. Se poteva esser vero per le
generazioni di consumatori anziani che hanno preceduto i Boomers, questo non
succede assolutamente per questa generazione.”
Il livello di
spesa degli over 50 è così alto, in realtà, che costituisce la maggioranza del
valore in molte categorie. Campaign ha trovato che il 60% di tutte le auto
che si vendono sono acquistate da loro. Lonely Planet afferma che gli over
50 contribuiscono al 58% di tutti i soldi spesi in viaggi
e turismo. Barclay crede che siano responsabili per il 58% delle vendite
nei comparti dell’ospitalità
e del tempo libero. Kantar ha riscontrato che sono responsabili per il 50%
degli acquisti in articoli di salute e bellezza, mentre un rapporto Nielsen
conferma che il 49% degli acquisti di beni di largo consumo sono attribuibili a
loro.
In parole povere,
gli over 50 sono la generazione più preziosa nella storia del marketing.
Eppure sono
ignorati da quasi tutta la pubblicità.
Si stima che solo
il 5% dei dollari investiti in pubblicità siano indirizzati agli adulti nella
fascia che va dai 35 al 64 anni di età. Immaginate quanto sarebbe piccola
questa cifra se volessimo considerare solo gli over 50. Gli schermi TV, i
canali social, i poster e gli annunci stampa di tutto il mondo sono pieni di
ventenni splendidi e felici. Non c’è traccia di rughe, di lunghe ore vuote, o
di floridi conti bancari.
Per tornare a Bob
Hoffman:
“I responsabili di marketing, a quanto pare,
preferirebbero assecondare infruttuosamente i gusti dei giovani piuttosto che
fare i soldi veri vendendo cose ai vecchi. L’idea di persone sopra i 50 che
guidano le proprie auto, bevono il proprio caffè, mangiano i propri hamburger e
indossano le proprie sneakers, gli provoca così paura e imbarazzo che
preferiscono ostinatamente ignorare e minimizzare il gruppo economico più
prezioso nella storia del mondo.”
Di nuovo, però,
questo non è un discorso che riguardi solo un settore economico. Non passa
inosservato ai radar. È notato, riconosciuto e ampiamente lamentato dalla
società in generale.
La compagnia di
assicurazione dedicata agli over 50, SunLife, ha condotto un sondaggio
su oltre 50.000 persone, per scoprire le loro percezioni riguardo l’industria
pubblicitaria. Tre quarti di loro pensavano di non essere mai rappresentati
negli annunci più diffusi. Mai. Nada. Nemmeno una volta.
Ma, di nuovo, va
anche peggio.
Nelle poche
occasioni in cui il loro gruppo di età è rappresentato, quello che viene
ritratto è uno stanco stereotipo. Secondo un sondaggio di YouGov,
su un campione di 1.000 persone over 50, il 79% non riteneva di essere ritratto
con precisione.
La ragione con
cui comunemente la gente del marketing e dell’advertising giustifica questa preferenza
verso i giovani è che le generazioni più vecchie sono bloccate nei loro modi. Che
sono estremamente fedeli ai brand che hanno scelto. E che ogni tentativo di
convertirle sarebbe difficile, se non impossibile.
Anche questo, di
nuovo, è privo di fondamento. Ritornando allo studio della Nielsen:
“I livelli di fedeltà alla marca espressi dai Boomers sono gli stessi di altri gruppi di età. [Il risultato netto è che] se i Boomers mostrano la stessa relazione con la marca e la stessa ricettività al marketing che mostrano gli altri consumatori, allora dovrebbero essere approcciati nello stesso modo.”
Perciò, gli over
50 sono una delle più ampie, più facoltose e meno servite audience disponibili
sul mercato.
Da questo punto
di vista, il fatto che gli over 50 siano così drammaticamente sotto-rappresentati
nel nostro advertising appare essere una dimostrazione di sconsideratezza
commerciale.
Conclusione
Ecco qua. Il
nostro settore è composto di personale senza esperienza che ignora
sistematicamente l’audience più profittevole del mondo. Non c’è da
meravigliarsi se la nostra influenza nella stanza dei bottoni stia svanendo.
Per fortuna c’è
spazio per sperare.
In primo luogo,
Ogilvy ha creato un programma di stage di sei mesi, chiamato The Pipe, che non ha
limiti d’età.
In secondo, WPP
ha visto la proporzione dei lavoratori con età tra i 20 e i 29 anni diminuire
dal 38% del 2011 a meno del 35% nel 2016, suggerendo
un livellamento della distribuzione della forza lavoro della società lungo
varie fasce d’età.
È un buon inizio.
Ma è solo un inizio.
Sì, abbiamo
bisogno di menti giovani e provocatorie, ma abbiamo anche bisogno di consulenti
esperti, con esperienza. Abbiamo bisogno di brand che si rivolgono a
consumatori giovani e vibranti, ma abbiamo anche bisogno di marche che offrano
prodotti e servizi ai consumatori più anziani, e ricchi. Alla fine, abbiamo
bisogno di equilibrio. Equilibrio nelle nostre agenzie, equilibrio nelle nostre
target audience e, più di tutto, equilibrio nel nostro approccio.
Solo allora
riguadagneremo il rispetto dei soci anziani.
Una cosa è chiara,
l’advertising deve diventare adulto.