giovedì 29 settembre 2011

Il sacrificio di Abramo

Senza soffermarmi sulla diatriba - che ho recentemente ascoltato per radio - riguardo alla correttezza di definire quel sacrificio di Abramo (carnefice) oppure di Isacco (vittima), mi interessava osservare come accada, a volte, di trovarsi di fronte ad impegni che ci vengono presentati dall'Esistenza con un'ultimativa necessità di fare delle scelte polarizzanti.
Non drastiche come quella presentata ad Abramo, intendiamoci, o almeno, non altrettanto irreversibili.
Ma, credo che molti di noi riescano a rapportarsi con quella inconfortevole sensazione di spadadidamoclità® (:-D) che certi impegni sembrano comportare, quell'ineludibile necessità di sacrificare un certo valore (o un valore certo, se volete) in modo da poter ottemperare a degli obblighi che sono squisitamente morali - non legali né materiali, per intenderci - e, molto più spesso che no, autoimposti.
Nel senso che, diciamolo, per essere quello che crediamo di essere e che intendiamo continuare a credere di essere, abbiamo scelto, più o meno consapevolmente, di fissarci dei paletti fatti di convinzioni e di comportamenti.
Esaurita questa verbosissima prolusione, il punto che mi interessava mettere a fuoco è quello esistenziale.
Tu sei lì che ti dibatti, fra l'impegno cui senti di dover ottemperare, ma che ti costa difficoltà, fatica, rinunce - come dicevamo? sacrificio, appunto - mentre ti arrabatti nel cercare tutte le possibili scappatoie che, comunque, anche lasciandoti immacolato agli occhi dei possibili testimoni esterni, inevitabilmente continuerebbero a prudere e a bruciare nella tua coscienza.
Tu lo sai che "ti tocca", devi farlo tu, e anche se la soluzione alternativa è altrettanto efficace, oltre che più comoda per te, tu DEVI.
Arriva quindi il momento in cui le alternative praticabili che non hai scartato tramontano autonomamente - eh, sì, perché spesso il destino ti beffa proprio in zona Cesarini - e ti imponi di arrenderti al giudice interiore e, rimboccandoti le maniche, ti accingi ad affrontare il sacrificio, qualsiasi forma esso scelga di assumere.
La tentazione di portare qui ed ora un esempio pratico è forte, ma è fuorviante: ognuno ha le sue scale di valori.
Quello che importa è che tu abbia alfine deciso di onorare la responsabilità che ti sei assunto/a.
E così, mentre con qualche accigliamento ma nessun infingimento ti accingi a compiere in un sol colpo un'azione meritevole e un sacrificio necessario, accade che un'altra soluzione si manifesti ex abrupto, evitandoti il più o meno gravoso compito di concludere l'intrapreso.
Il sollievo, quando arriva inaspettatamente, è senza dubbio ancora più benedetto.
Ma trovo interessante riflettere soprattutto su questo punto: è possibile che la nostra Intenzione di tener fede ad una promessa che ci costa qualcosa come un sacrificio sia un motore a volte così potente da spingere la soluzione verso di noi anziché il contrario?
Ammesso che una domanda del genere possa aver risposta, ogni volta che mi accade qualcosa del genere ci faccio caso. E un piccolo sorriso, impercettibile, mi scalda dentro.
Non è per il sacrificio risparmiato, ma per la miracolosa combinazione degli eventi.
Ho un debole per le combinazioni: non a caso aprono le casseforti.

giovedì 22 settembre 2011

Un sasso nello stagno

"Eppur si arroga
Il diritto di proroga
E dal diritto comune deroga
Contrastando il diritto di chi interroga
I colpèvoli perché sempre alla toga
Di gran lunga preferisce la figa
E tutti i suoi complici soggioga
Affinché acconsentano alla fuga
Cerca invano di nascondere ogni ruga
E di investire di segreto ogni sua bega
Detestando chi nei suoi affari fruga
Mentre il patrimonio pubblico prosciuga
E dalle riforme si tiene assai alla larga
Perché la merda nel suo cuore alberga
E l’unico suo interesse è la sua verga
Che affonda volentieri nelle terga
Del prossimo che par non se accorga
Altrimenti di un’altra Norimberga
L’avrebbe cancellato l’aspra purga
Perché non manca chi un alibi gli porga
Così, prima che altro fango sparga
Un vento di spiriti e di intenti sorga
Che il giudizio e il castigo giusto imponga
Vorrei vedere alfin sta sanguisuga
Mentre nel mare del suo tramonto annega.
Per questo lascerò dispara la riga
Che questa segue e sventola la daga…"








mercoledì 14 settembre 2011

Libri di sangue

Accompagnando il mio bambino a scuola, stamattina,
ho riascoltato, per fargli ascoltare, questa canzone.
E a un certo punto, ricantandola dopo tanti anni,
mi sono dovuto mettere gli occhiali da sole.
Non era solo la nostalgia.
Non è soltanto la vecchiaia.
Anche quasi vent'anni fa, quando arrivava ad un certo punto,
l'emozione prendeva il sopravvento.
Già, con questa canzone.
E' vero quello che sosteneva il titolo di questo disco, "Verba Manent".
E quelle di questa canzone sono ancora qui, pronte a far sanguinare la coscienza.

lunedì 12 settembre 2011

Etimologia della cozza


Mi corre l'obbligo, nonché il privilegio, di dirimere un'annosa questione linguistica, di dissolvere un fastidioso fraintendimento che, alimentato dalla esecrabile ineducazione proposta da certa filmografia e dalle televisioni nostrane, si è consolidato nell'accezione comune della metafora in oggetto, che ho ritagliato direttamente dal meritevole Wikipedia.

Nel Centro-Sud, il termine "cozza" ha assunto recentemente un'accezione gergale e metaforica, di probabile provenienza romanesca, connotante una donna o ragazza decisamente brutta

Apparentemente, discettandone con connazionali non provenienti dalla capitale, ma anche con concittadini dell'Urbe appartenenti alle generazioni posteriori alla mia, l'equazione cozza=ragazza decisamente brutta parrebbe essere correlato all'aspetto esteriore di entrambe.
Cioé, secondo questa moltitudine di disinformati, il Mytilus galloprovincialis avrebbe una brutta conchiglia e tale involucro giustificherebbe l'utilizzo del suo sinonimo vulgaris per descrivere, con accezione derogatoria oltremodo pesante, una ragazza o una donna di fattezze inequivocabilmente sgradevoli, secondo i canoni più comunemente diffusi.
Scavalco a pie' pari l'opinabilità dei criteri estetici riguardo al genere femminile; non sono un filosofo.
Vorrei solo dissentire profondamente, però, sull'estetica del mollusco, prima di arrivare alla questione nodale, il qui pro quo.
Ritengo che la conchiglia della cozza - una volta ripulita dal bisso che ne ottunde la forma e la texture - sia un mirabile esempio di design, un packaging per finger food naturalmente dotato di Armani look.


Allora, veniamo direttamente al punto:
non è con l'esterno della cozza che si paragona un'invetusta pulzella,
ma con l'interno.





Ora, attenzione, la lettura di quello che segue è sconsigliato a chi abbia uno stomaco delicato o un animo suscettibile.

A Roma la prima accezione vernacolare del termine
COZZA,
escluso il significato intrinseco di mollusco edule, è

AMMASSO ESAGERATO DI ESPETTORATO CHE GUARNISCE CON IL SUO GIALLO INTENSO IL GRIGIO SPENTO DEI MARCIAPIEDI.

In parole povere, uno sgommarello di catarro, abbandonato per la via con nonchalance, generalmente da vecchi o incalliti fumatori o pazienti affetti da bronchite cronica.

Naturalmente mi asterrò dal corredare questo post con adeguata documentazione fotografica a sostegno della pittoresca ancorché azzeccata metafora romanesca che, per translazione, è stata successivamente estesa alle rappresentanti del gentil sesso con non altrettanto gentile aspetto.

Non posso esimermi dal manifestare la mia solidarietà a tutte quelle donne che, anche se solo una volta, anche se solo per celia, si siano sentite apostrofare in cotal guisa.

A loro dedicherei due favole di Esopo, questa e questa, come parziale risarcimento morale.

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